Prima intervista dopo la nomina per il magistrato che raccoglie l’eredità di Nicola Gratteri: «Il regalo più grande fatto ai clan è stato quello di demandarne la lotta solo alle forze di polizia». I ricordi di una vita di battaglie contro la criminalità organizzata e quella volta a Bogotà in cui il broker della coca volle fare l’interrogatorio in dialetto calabrese
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Di recente il neo procuratore di Catanzaro Salvatore Curcio ha detto: «Noi non trattiamo numeri, non trattiamo fascicoli, noi trattiamo persone». E questo aspetto traspare, più di ogni altra cosa, nel corso della lunga e intensa intervista che il magistrato ha concesso a LaC News24, la prima dal suo insediamento.
Non dimentica, Salvatore Curcio, i particolari più umani della tragica vicenda del piccolo Domenico Gabriele, detto Dodò, che il giorno prima di morire era andato dal barbiere perché doveva andare a un matrimonio. O il piccolo Anàs Zouabi che, prima di partire per attraversare il Mediterraneo, aveva indossato la tutina “magica” di Batman. O, anche, quei ragazzi che a stento riuscivano a leggere le poche righe della formula di rito perché cresciuti in contesti di disagio sociale e ignoranza. O il broker del narcotraffico che si ostinava a rendere, a Bogotà, l’interrogatorio in dialetto calabrese. Particolari. Tanti. Quelli della carriera di un uomo che non ha trattato numeri ma persone. E che oggi dice: «Tutto ciò che accade nella nostra comunità è un problema che ci riguarda».
Procuratore Curcio, qual è l’aspetto che più la preoccupa nell’affrontare la sfida di guidare un Ufficio come quello di Catanzaro e qual è quello che più la rende felice?
«Rientro a Catanzaro dopo avervi trascorso la gran parte della mia carriera e un periodo di otto anni alla Procura di Lamezia. Personalmente ritengo che sia il giusto e logico completamento di un percorso professionale iniziato tanto tempo fa e che mi ha visto impegnato, fin da giovane magistrato, nella trattazione di procedimenti penali di criminalità organizzata. Avrò la fortuna – ma al tempo stesso la grande responsabilità – di dirigere un ufficio che ha un modello organizzativo che gli consente di operare efficacemente prescindendo dalle persone e dalle contingenze del momento e ciò rappresenta un indubbio valore aggiunto».
Dal 2016 ha guidato la Procura di Lamezia Terme, che situazione ha trovato e cosa lascia?
«I primi anni alla Procura di Lamezia sono stati complicati: la scarsità delle risorse, delle unità lavorative del personale amministrativo (per un periodo presente in 11 persone su 23), la riduzione della pianta organica dei magistrati da cinque a quattro sostituti procuratore, una scopertura di quest’ultimo organico arrivata anche al 50%. A ciò si aggiunga la necessità di far fronte alle esigenze di informatizzazione del processo penale ed all’avvio della necessaria progettualità, e alla crisi pandemica da Covid 19: insomma non è stata per tutti noi, magistrati e personale amministrativo, quel che si dice una passeggiata.
Il risultato che, più di ogni altro, mi riempie di soddisfazione è quello di essere riuscito a trasmettere quello spirito di appartenenza che ci ha consentito non solo di superare difficoltà enormi per le forze in campo, ma di raggiungere obiettivi concreti, migliorando la qualità dei servizi e delle attività. E tale traguardo è stato riconosciuto ampiamente dagli esiti delle attività ispettive ordinarie disposte dal ministero della Giustizia: la sintesi sull’andamento generale della Procura della Repubblica della relazione ispettiva del ministero della Giustizia conclude evidenziando come: “Dall’analisi complessiva svolta si rileva come l’Ufficio di Procura sia dotato di un’efficiente organizzazione, che ha consentito di raggiungere significativi standard di produttività e di offrire un credibile servizio della giustizia… a fronte di coperture di organico non sempre adeguate al bacino di utenza…”».
Al di fuori dagli aspetti lavorativi, quale pensiero dedica alla città che ha imparato a conoscere negli ultimi otto anni?
«Ho avuto modo di esternare i miei sentimenti di gratitudine a colleghi, personale amministrativo e alla città, in occasione del saluto agli Uffici giudiziari, non posso che ribadire le cose che ho già detto. Mi è stato chiesto più volte, in questo periodo, cosa porterò con me di Lamezia Terme: in molti attendevano – e magari anche oggi si aspettano – una risposta che celebri i risultati investigativi ottenuti (in ipotesi, gli accertamenti giudiziali definitivi di responsabilità penale di tutti gli omicidi di questi otto anni, quanto si è fatto in materia ambientale e di sfruttamento del lavoro). Non è questo.
Di Lamezia Terme porterò con me la gente, i ragazzi, le persone con cui ho percorso questo lungo viaggio nel tempo: e vi assicuro che non è poco, anzi rappresenta per me una vera ricchezza. Ho avuto la fortuna di condividere umanamente le vite di tante persone: le ansie di ognuno, le preoccupazioni, le tensioni e le difficoltà, le gioie ma anche i dolori.
Mi accompagneranno i volti carichi di speranze e di aspettative dei giovani magistrati e dei giovani avvocati; mi accompagnerà lo sguardo stanco dei tanti operatori di polizia giudiziaria impegnati, giorno e notte, nell’effettuazione di rilievi ed accertamenti defaticanti per gravissimi fatti di sangue; mi accompagnerà la "straordinaria ordinarietà" che contrassegna le giornate – sempre uguali – del personale amministrativo, da cui pretendiamo sempre il massimo; mi accompagnerà, con angoscia, la sete di Giustizia dei familiari delle vittime di ‘ndrangheta alla ricerca, ancora oggi, almeno di un "perché" che possa lenire il loro immenso dolore.
Porto con me la gente di Lamezia Terme: i ragazzi dell’Estate Ragazzi di don Fabio, dal più piccolo agli animatori più grandi, e l’incontro con loro per il consueto Buongiorno estivo, l’ascolto e la riflessione comune; porto con me i volontari e i ragazzi dell’associazione Trame e il loro bellissimo Festival che contribuisce – e non poco – ad alimentare la coscienza e la conoscenza di una barbarie come le mafie. Alle tante associazioni di volontariato presenti sul territorio, dico: grazie. Un augurio ed un in bocca al lupo particolare alla Progetto Sud chiamata ad occuparsi – finalmente, dopo 60 anni – della ricollocazione dei residenti di Scordovillo quale soggetto terzo attuatore di un progetto concreto che finalmente è andato in porto, grazie all’apporto di tutti, anche dell’ufficio di Procura. Un grazie al Comune di Lamezia Terme ed alla sua amministrazione che, in uno con la Regione Calabria, il ministero dell’Interno e quello dell’Ambiente, restituiranno a tanta gente la "dignità del vivere" ed alla città un territorio dimenticato».
Lei è stato pm a Catanzaro dal 1993 al 2012, ha guidato inchieste importanti contro la ‘ndrangheta, soprattutto quella della Sibaritide, ma ha anche vissuto momenti difficili. Cosa ricorda di quegli anni? Qual è l’impronta che hanno lasciato su di lei?
«Tutto! È stata ed è la mia vita: praticamente mi sta chiedendo di raccontargliela… e in brevi battute mi sembra un’operazione impossibile. Posso sintetizzare – e forse neanche al meglio – ciò che ho imparato in tutti questi anni di processi di criminalità organizzata. L’azione penale complessivamente intesa, per intenderci gli arresti, i processi, le condanne, non rappresenterà mai la soluzione al "problema" criminalità mafiosa. Vede, la società calabrese e quella meridionale in genere ha fatto – e continua a fare – dei grandi regali all’"onorata società”. Un primo "regalo" è quello di avere colposamente ritenuto – e da sempre – che il sistema di contrasto alle mafie fosse esclusivamente demandato a magistrati e Forze di polizia e che i cittadini fossero degli "spettatori", al più interessati. In realtà, le mafie e l’illegalità si sono nutrite da sempre – e si nutrono – soprattutto dei nostri silenzi, delle nostre indifferenze, del nostro disimpegno, delle nostre equivocità.
Le nostre comunità, innanzitutto, sono chiamate, con forza, a ″riappropriarsi″ dello status di cittadini, dismettendo i panni dei sudditi che per troppo tempo abbiamo indossato, rifuggendo da quell’atteggiamento ammorbante di incomprensibile ″terzietà″ nei confronti dello Stato, dimenticando, sovente, che lo Stato siamo noi, che non ci può essere comunità senza senso di appartenenza, senza il rispetto delle regole minimali di convivenza civile. È quello che io ritengo tradursi in un vero e proprio "processo di astrazione mentale”. L’approccio dei consociati, di una comunità ai fatti di ‘ndrangheta è stato, è, nella stragrande maggioranza delle esperienze di vita di ogni giorno, di rassegnata “assuefazione” ai fatti criminali, anche i più efferati. È la cosiddetta contro-cultura dell’"oramai", l’alibi di noi meridionali al nostro evidente disimpegno sociale.
Tale empirica constatazione desta grande preoccupazione, nella misura in cui rappresenta, appunto, l’effetto di un pericoloso procedimento di “astrazione mentale” dei cittadini, non solo (e non tanto) rispetto all’evento di cronaca, quanto, piuttosto, – ed è ciò che suscita maggiore allarme – rispetto alla vita della comunità stessa, allo Stato.
Come viene percepito, in tutto ciò, lo Stato?
«Lo Stato, sempre più spesso, è considerato come un’entità astratta, un soggetto-terzo, un “corpo estraneo” rispetto al proprio modo di essere, di vivere, spesso, addirittura, nocivo: è questo l’humus in cui si disperde il senso della appartenenza ad una comunità; è questo il momento che segna la perdita, in ciascuno di noi, della condizione di cittadino in favore di quella del “suddito”.
È tale diffuso atteggiamento che ha portato e porta a ritenere - e qui davvero si commette l’errore più grave in una strategia di contrasto al crimine organizzato di tipo mafioso - che la lotta alla ‘ndrangheta sia un affare, una problematica da demandare esclusivamente alle Forze di Polizia, alla magistratura e agli altri organismi istituzionali, centrali e locali (Governo e Regioni). Questo è il regalo più grande che abbiamo fatto alle organizzazioni di ‘ndrangheta.
Il cambiamento, allora, deve muovere innanzitutto dalla scelta che ciascuno di noi è chiamato a fare con chiarezza e senza infingimenti: scegliere bene da che parte stare, rifuggendo dalle scorciatoie, dai compromessi, sporcandosi tutti insieme le mani in questa battaglia che sembra non avere fine. Non basta aderire ad un movimento, ad un’associazione, manifestare indossando una maglietta con una bella frase ad effetto per essere realmente e profondamente "contro", per essere "antimafia". Il cambiamento deve partire da una rivolta delle coscienze: l’antimafia nasce dalle nostre interiorità, dalle nostre coscienze e da un’effettiva rinascita di libertà interiore. Corrado Alvaro scriveva che “Nessuna libertà esiste quando non esiste una libertà interiore dell’individuo”».
Lei in più occasioni ha parlato di "straordinaria ordinarietà".
Non abbiamo bisogno di super eroi, né di super-poteri: il nostro Sud ha fame e sete di una "straordinaria ordinarietà", in cui ogni cittadino, quotidianamente, sia testimone del proprio impegno, nel lavoro, nello studio, nelle ordinarie occupazioni, nella vita relazionale, nella coerenza dei comportamenti. Prima di parlare, dunque, di lotta alle mafie, è necessario combattere e sradicare la cultura mafiosa, la mentalità della prevaricazione, della difesa strenua delle proprie "rendite di posizione" a qualunque costo, della "mediazione amicale" quale soluzione e superamento di ogni difficoltà che ci sbarra il passo, anche quando siamo consapevoli di perseguire un fine indebito; dell’indifferenza, dell’individualismo più sfrenato che caratterizza questo nostro tempo, sostituendo all’"io" il "noi", espressione di appartenenza ad un comune sentire, ad una comunità. Tutto ciò che accade nella nostra comunità è un problema che ci riguarda, che siamo chiamati ad affrontare, ciascuno nel suo piccolo, per carità, ma con la partecipazione attiva al vivere comune, col proprio impegno, con la propria testimonianza civile, fatta di amore per la verità, la giustizia, la libertà. Mi sovviene l’«I care» di don Lorenzo Milani ed i ragazzi di Barbiana».
Cosa può fare, in concreto, ognuno di noi?
«Dobbiamo “immergerci” nelle nostre realtà, metterci in gioco, camminando ed andando incontro al disagio sociale, abbandonando definitivamente quell’atteggiamento inutilmente attendista, quasi a pretendere che sia il disagio a venirci incontro. Quanto sia pericoloso il sonno della ragione, lo stiamo toccando con mano quotidianamente: un semplice prendere le distanze non può bastare, non è più possibile una "fuga immobile", anzi può rappresentare una scelta immorale nella misura in cui può interpretarsi come un disimpegno colpevole. Oggi non è più tempo di tacere, è tempo di prendere una posizione. Non si può essere uomini liberi rimanendo sudditi: occorre operare scelte precise e coerenti tra i principi ed i valori che diciamo di perseguire ed i comportamenti personali e di gruppo o, utilizzando la bella metafora di Mons. Bregantini, "tra la Messa della domenica e le scelte personali e collettive del lunedì”. E quest’aspetto, attenzione, rappresenta uno snodo cruciale del problema ed attiene alla "credibilità" non solo delle persone e delle istituzioni, ma dello stesso sistema generale di contrasto alle mafie e noi tutti sappiamo di quanta credibilità abbia sete questa terra. Solo il nostro impegno, rinnovato, affidabile e soprattutto coerente con i nostri comportamenti quotidiani ci potrà rendere testimoni credibili del nostro tempo nella società».
Lei è sempre stato molto sensibile all’argomento giovani. Quanto è importante la rivolta delle coscienze per il loro futuro?
«Rivolta delle coscienze non può non tradursi anche in una rinnovata formazione soprattutto delle giovani generazioni, in una rivoluzione culturale che segni una soluzione di continuità con il passato. In questo senso un ruolo fondamentale, prima che la scuola, hanno la famiglia ed i modelli educativi e formativi adottati.
In un’epoca in cui gli impegni divorano le nostre vite, completamente assorbite da attività di vario genere, lavorative, ludiche, relazionali, ma tutte rigorosamente "extra moenia", il modello educativo familiare imperante è – ahimè – il modello di famiglia delegante: l’educazione e formazione dei nostri figli è, di fatto, demandata ai nonni (nella migliore delle ipotesi), alla tv, e oggi, più che mai, ai social, al web. Non abbiamo tempo da dedicare ai nostri ragazzi, a coloro che rappresentano il nostro presente ed il nostro domani, che incarnano le nostre speranze.
Spesso, tutto ciò approda finanche a situazioni di tipo paradossale, allorquando ci si pone in aperta discrasia con le agenzie educative, prima tra tutte la scuola, perché magari riesce più facile e naturale (meglio sarebbe dire più comodo) dare credito alle doglianze di un figlio che alle critiche costruttive di un professore o di un preside che lamenta uno scarso impegno scolastico piuttosto che atteggiamenti censurabili: meglio apparire genitore di un genio incompreso che di un inguaribile ciuchino. Si mina, in tal modo, l’intero sistema educativo che non può e non deve prescindere da un’inscindibile sinergia scuola-famiglia. La cultura, difatti, e la formazione dei nostri giovani rappresentano un elemento essenziale del cambiamento».
Quanto è importante portare cultura e istruzione nel mondo dei ragazzi?
«Nella mia attività professionale mi è capitato di occuparmi dinanzi alla Corte d’Assise prima e alla Corte d’Assise d’appello di Catanzaro poi, della cosiddetta strage dei campetti in cui rimase tragicamente ucciso il piccolo Domenico Gabriele di soli nove anni. Ci fu un momento del processo che mi impressionò particolarmente, allorquando la difesa degli imputati chiamò a deporre – quali testi a discarico – una serie di ragazzi tra i sedici ed i vent’anni: questi ragazzi avevano difficoltà a leggere la formula di impegno di poche righe che veniva loro sottoposta. Ecco, lì ho veramente toccato con mano di come e quanto la ‘ndrangheta possa proliferare in contesti caratterizzati da disagio sociale ed ignoranza».
Lei non lo dimostra mai apertamente, ma chi la conosce bene sa che è un uomo di fede. Come nasce questo suo sentire? La aiuta nella vita?
«Mi ha aiutato – e mi aiuta – come uomo e come magistrato: diciamo che, come magistrato, mi ha consentito di abbracciare a pieno l’esortazione di Rosario Angelo Livatino ad imparare ad essere operatore di giustizia e non mero operatore di diritto, «Il diritto - scriveva - non può essere ridotto alla mera contingenza politica, né al puro arbitrio del giudice, né alla mera forma della legge, dovendosi piuttosto imparare, da parte dei giuristi, il difficile compito di vedere il diritto oltre le norme, la giustizia oltre l’ordinamento, la carità oltre la giustizia». Attenzione, questa esortazione vale per chiunque, anche per i non credenti, sostituendo alla fede il "benessere comune"».
Da magistrato ne ha viste tante. Eppure la vicenda del piccolo Anàs, bambino di soli sei anni morto nel corso di un naufragio, l’ha particolarmente colpita…
«Potrebbe essere una vicenda triste e amara come tante tra quelle che ho visto in questi anni, quando le vittime sono i bambini poi… si resta disarmati. L’ultimo mio processo in Dda, agosto 2012, fu dinanzi alla Corte d’assise di Catanzaro per la strage dei campetti di Crotone in cui perse la vita il piccolo Dodò, Domenico Gabriele: era andato col papà a giocare a calcetto quella sera e prima si erano recati dal barbiere perché il giorno dopo erano invitati ad un matrimonio. Cosa puoi dire a due genitori che hanno perso in quel modo l’unico figlio? La vicenda del piccolo Anàs Zouabi, il bambino tunisino morto tragicamente in conseguenza del naufragio (fantasma, non censito) del piccolo gommone su cui tentò la traversata del canale di Sicilia con il suo papà ed altre 16 persone, tutte morte, mi è rimasta altrettanto impressa anche per la reazione della città di Lamezia Terme. Anàs aveva indossato, nell’occasione, il suo vestito più bello e "magico" per fronteggiare le insidie del mare: il vestito del suo super eroe preferito, Batman, non è bastato. È stato complicato, ma siamo riusciti a ricostruire pazientemente quanto accaduto e ad identificare i resti di quel corpicino, restituendo le sue spoglie mortali ai superstiti della famiglia. Ebbene la città di Lamezia Terme, l’associazione Trame, l’intera comunità ci hanno messo il cuore, dando il loro ultimo saluto al piccolo Anàs in una cerimonia funebre totalmente inclusiva, che ha visto la comunità di Lamezia Terme, nella sua componente cattolica, musulmana e laica, unita in un’unica voce commossa. Ma si è andati al di là, lanciando il cuore oltre ogni barriera, oltre ogni ostacolo, annullando ogni distanza. La comunità ha deciso di occuparsi delle sorti della piccola Teyssir, la sorellina di Anàs, promuovendo una raccolta fondi, a cura di Trame e di altre associazioni di Lamezia e comprensorio, che, durante le festività natalizie, ha raggiunto il suo scopo, assicurando alla piccola un minimo di serenità. Spero dal profondo che questa piccola, grande tragica storia – una delle tante – possa insegnare a tutti noi che la nostra gioventù merita una cultura migliore rispetto a quella dei social, del web e del telefonino, una cultura che sia in grado di coniugare pathos e logos, come ha efficacemente scritto tempo fa Massimo Cacciari, una cultura che percepisca l'uomo come fine e non come mezzo, che consideri il "diverso" una risorsa importante, giammai una minaccia: “Solo nella diversità si può cogliere il vero senso della bellezza e l'essenza di un impegno costruttivo che non è mai discriminante ma sempre inclusivo”».
Lei conserva gelosamente i ricordi, anche quelli più piccoli. Il suo ufficio è pieno di foto, gadget, regali e persino biglietti da visita. Qual è tra questi ricordi quello al quale è più legato?
«È principalmente il segno del tempo che passa, delle tantissime persone che ho incontrato durante questo lungo viaggio e dalle quali ho sempre imparato tanto ed alle quali sarò eternamente grato. Colleghi, polizia giudiziaria, personale amministrativo, avvocati, semplici cittadini. Un pensiero è per tutti coloro che non ci sono più e che custodisco tra i miei ricordi più cari».
Ci racconta un aneddoto tra i più curiosi o avventurosi che la sua attività investigativa, anche quella condotta con le forze di polizia straniere, le ha regalato?
«Immaginerà che ce ne sono veramente tanti. Uno è sicuramente l’interrogatorio di un grosso broker calabrese del narcotraffico che feci con i colleghi colombiani della Fiscalia General de la Nacion di Bogotà davanti al Tribunale di Santa Marta, una città sulla costa caraibica colombiana. L’indagato si impuntò e pretese di fare l’intero interrogatorio in dialetto calabrese, con buona pace del suo avvocato e dei colleghi colombiani a cui fu veramente dura spiegare cosa significasse il termine "cumpari"».
È difficile conciliare la vita lavorativa con quella familiare? Come si fa ad essere sempre presenti con i propri cari con un lavoro impegnativo come il suo?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».