VIDEO | Il business della moda per il boss proveniente da San Gregorio d’Ippona: «Dobbiamo mettere giacca e cravatta, dobbiamo essere gente finanziaria». Le scarpe Ame Delan, borse e vestiti: un progetto che mirava a Milano, Londra e Spagna. Il suo socio: «Prendiamo il conto terzi di Valentino e Louis Vuitton»
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Qualora qualcuno cercasse ancora “Mafia Capitale”, l’inchiesta colossal della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro spiega dove trovarla. Ed è un po’ diversa da quella rappresentata dall’ufficio che fu di Giuseppe Pignatonee che non resse al triplice grado di giudizio: non ci sono i vecchi arnesi dell’eversione nera, non c’è il cooperativismo rosso, né quella melassa di relazioni tra boss, veri o presunti, pubbliche amministrazioni e municipalizzate.
Le origini di un boss
La “Mafia Capitale” si chiama ’ndrangheta e l’ultimo re di Roma, che rappresenta da sé un mondo di mezzo, è Saverio Razionale. È un mafioso - anzi, uno ’ndranghetista, boss di rango - riconosciuto tale, almeno fino al 2005, da una sentenza passata in giudicato. Partì da San Gregorio d’Ippona, centro agricolo del Vibonese, allevato da una malavita rurale e sanguinaria, e divenne, col tempo, malgrado le vicissitudini giudiziarie e le aggressioni patrimoniali che scalfirono ma non annientarono il suo tesoro, uno dei capimafia più ricchi e influenti della ‘ndrangheta. Uno capace di interagire con estrema disinvoltura tanto con i mafiosi quanto con i colletti bianchi. E che in silenzio si sarebbe preso parte della Capitale. Legato al “capo dei capi” Luigi Mancuso, fu vittima il 25 settembre del 1995 di un tentativo d’omicidio ordinato da un altro Mancuso, Peppe detto “Mbrogghjia”, il sanguinario: sopravvisse e la sua vendetta - gli viene contestato oggi dall’autorità giudiziaria - verso l’esecutore materiale fu tremenda: assieme a Peppone Accorinti, capomafia di Zungri, torturò, uccise e fece sparire Roberto Soriano, allora giovane capo della ‘ndrina di Filandari, esecutore dell’agguato.
Un capomafia italiano
Il filone “Scott” che il Ros condusse con il coordinamento del pool di Nicola Gratteri, divenendo una delle due colonne portanti dell’inchiesta deflagrata lo scorso dicembre con oltre trecento arresti, ebbe avvio proprio dal monitoraggio di Saverio Razionale. Droga, usura, una finissima attività di riciclaggio, una spiccata capacità imprenditoriale, un’intelligenza non comune, tutti messi a frutto negli anni di soggiorno obbligato a Roma, dalla quale - grazie alle visite dei suoi attendenti e al carisma del nipote, Gregorio Gasparro- riuscì a mantenere inalterata la sua influenza sulla terra madre.
Quale sia la sua mentalità manageriale emerge da una intercettazione. Colloquia con Antonino Delfino, un imprenditore reggino in difficoltà e che s’era rilanciato nella Capitale, proprio grazie al boss di San Gregorio d’Ippona: «Io vengo da esperienze già brutte e lo so come funziona», dice. E poi: «Puoi prendere milioni di euro ma rischi di farti arrestare… Ci dobbiamo mettere giacca e cravatta e senza lavorare… Noi dobbiamo essere gente finanziaria».
Un affare romano
Il boss dimora in un sontuoso complesso romano lungo via Aurelia, meta del pellegrinaggio dei suoi faccendieri. È in questa residenza dorata, fatta di lusso, piscina e campo da tennis, che si consolida il rapporto con Antonino Delfino. È un tipo abitudinario, il boss. Frequenta in particolare il gazebo del bar antistante l’Hotel Crowne Plaza di Roma: il Ros lo sa e ci piazza anche una microcamera. A dicembre del 2016 è qui che incontra l’avvocato Francesco Stilo ed un uomo che si ritiene legato al capomafia di Lamezia Terme Vincenzo Bonaddio che vorrebbe far aprire un negozio a sua moglie nella città di Cosenza. È in questa occasione che Razionale spiega i suoi affari con Delfino, amministratore unico e legale rappresentante della Mother Holding Srl: «Facevamo solo vestiti su misura e vendevamo tutto on line, poi loro hanno comprato i capannoni a Pomezia e abbiamo avuto l’idea di fare tutti i punti vendita e di fare la fabbrica. Abbiamo fatto prima la fabbrica e poi abbiamo fatto i punti vendita ed oggi come oggi, non ricordo se sono otto o nove, che non me li ricordo tutti». In quella fabbrica viene anche avviata la produzione di scarpe.
«Qua! Cinquecentomila euro!»
Il 2 gennaio 2017 è lo stesso Antonino Delfino, in un’altra intercettazione, a spiegare come Razionale abbia dato impulso alla sua impresa, costituita il 9 gennaio del 2015: «Noi a marzo (del 2016, nda) portavamo perdite e ci eravamo addossati a febbraio un milione e mezzo di capannoni. È uscito lui (Saverio Razionale che ha lasciato il carcere il 26 febbraio 2016, nda) e gli ho detto “Mi servono 500.000 euro”. Dice “Non ci sono problemi! Qua ci sono 500.000 euro”. Abbiamo cambiato la campagna a marzo e la strategia. Noi oggi siamo la prima azienda in Italia. Trentamila scarpe vendute».
La holding assorbe ben 15 società, italiane e britanniche, e prevede una espansione capillare, sia nella Capitale, ma anche a Milano, a Londra e in Spagna. E prevede anche un punto vendita a Vibo Valentia. Prevede l’investimento su top manager, gente come Lamberto Taddeo, che aveva lavorato anche con Tod’s e aveva diretto il gruppo Clark di viale Marconi all’Eur. Il marchio con il quale conquistare il mercato è quello di Ame Delan: scarpe e borse artigianali interamente made in Italy. E poi: «L’obiettivo è il conto terzi di Valentino, di Louis Vuitton… e tutto».
L’avvio, una volta che il boss, senza comparire in alcun documento, investe i suoi capitali nella società di Delfino è dirompente: uno dei punti vendita si trova nella galleria dell’Hotel Crowne Plaza, un altro in Piazza di Spagna, un altro ancora nella zona di Piazza Montecitorio. E il top manager? «Si è licenziato e ora lavora con noi».
La verve imprenditoriale
«Voglio i denari, voglio i denari», ripete il boss. Non più interessato «alle pietre», ovvero ai beni immobili che prima o poi finiscono sequestrati e confiscati: «Lo sai quando sono tranquillo? Quando noi abbiamo il bottino e non lavoriamo più. Che non c’è nessuna attività e passeggiamo. Lì sono l’uomo più felice del mondo io». L’impresa va a gonfie vele. Dopo neppure un anno dallo sposalizio imprenditoriale con Saverio Razionale, l’8 gennaio 2017, Delfino chiama il boss: «Abbiamo chiuso con un utile di 580.000 euro». Ci tiene, il boss, a quell’attività: va perfino in fabbrica, ispeziona il prodotto e se la manifattura non è perfetta ordina che sia ripetuta, chiede conto della regolarità della posizione dei lavoratori, salda di persona, laddove ci sono ritardi, affitti e bollette. Per sé, come documenta il Ros grazie alle sue microcamere, tiene al momento solo un relativamente modesto stipendio da 3.000 euro al mese.
Il boss ieri e oggi
Veste con gusto, ama il lusso, viene interpellato per dirimere le controversie. Non rinuncia alla dolce vita ma vuole restare nell’ombra. Sono lontani i tempi in cui era uno dei componenti della “Caddara”, il direttorio criminale del quale facevano parte i più potenti capimafia di una delle province di ’ndrangheta più temute in Italia, quella di Vibo Valentia: Luigi e Peppe Mancuso, Rosario Fiaré, Peppone Accorinti, i boss di Mileto e del Poro, Carmine Galati e Raffaele Fiamingo, il primo morto in un incidente con il trattore, il secondo ammazzato. Ma Saverio Razionale continua a pesare e contare e a fare soldi.
Andrea Mantella, il killer e padrino emergente oggi collaboratore di giustizia, che lo ha avuto come «compare di cresima» al carcere di Paola, lo inchioda e ne traccia un profilo eloquente: «Lui è una persona estremamente intelligente e quando è uscito dal carcere, nel 2001-2002, soffriva la sorveglianza a San Gregorio tanto che voleva andarsene da lì e successivamente si è trasferito a Roma. Poi progressivamente ha cercato di staccarsi dai Mancuso ed ha iniziato ad investire nel settore della cocaina e delle truffe». I capi dei Mancuso, d’altronde, anche dal carcere seguivano la crescita dell’ultimo re di Roma che tornato libero s’era rimesso in pista proprio nella capitale. Dice Mantella: «Presso il carcere di Viterbo, Diego Mancuso mi disse che Razionale era messo bene su Roma per quanto riguarda la gestione di bar e altre attività, come autosaloni, poiché aveva fatto molti soldi con la cocaina e per questo lo voleva contattare. Aggiunse anche di aver saputo che gli erano stati sequestrati molti beni».
Sì, gli furono sequestrati. Operazione “Talea”, ne uscì subito, all’udienza preliminare. Candidamente il boss confessa, intercettato, mentre è in compagnia di Luigi Mancuso e Giancarlo Pittelli: «Eh, ma il processo l’ho manovrato». Avrebbe “aggiustato” non il giudice, ma il pubblico ministero, che l’avrebbe «difeso per un’ora e mezza», facendolo così assolvere. I suoi beni tutti restituiti, i suoi presunti complici tutti scagionati.
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