Da Moscato ad Arena, passando per Mantella e Mancuso: chi non ha mai avuto scrupoli e paura, chi era troppo buono per fare il mafioso. Le storie – così come non sono mai state raccontate – di coloro che hanno saltato il fosso, consentendo al pool di Gratteri di demolire la mala vibonese
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L’asso di cuori è Andrea Mantella. Quel carisma mostrato nel corso della sua carriera criminale - prima da sicario, poi da giovane boss ribelle - alimenta oggi la sua collaborazione con la giustizia. Uno che non ha mai saputo cosa fosse la paura: di sparare, di uccidere, perfino di essere ucciso. E che, a fine pena, quasi prossimo alla libertà, decise di saltare il fosso. Un pentimento «sincero» - dice - per «cambiare vita». Serve coraggio per fare certe scelte e lui il coraggio - disse in udienza -, lanciando un guanto di sfida al mondo che aveva messo da parte affidando le sue memorie su «trent’anni di mafia» al pool di Nicola Gratteri, l’aveva sin da quando era «nella pancia» di sua madre.
L’ascesa di Andreuccio
Crebbe in una sorta di Gomorra calabrese, nei quartieri più difficili di Vibo Valentia, quando i ragazzini iniziavano a maneggiare armi e a delinquere all’ombra dei grandi che si facevano la guerra. La vecchia guardia dell’onorata società vibonese veniva deposta: chi ammazzato, chi fatto sparire, e i Mancuso, divenuti una potenza criminale ormai incontrastabile, imposero un nuovo ordine. In questo contesto crebbe Andreuccio, aspirante mafioso sin da bambino: gli veniva ordinato di sparare e lui sparava, di uccidere e lui uccideva. Quando nel novembre del 1992 fece il primo omicidio – racconta – gli fu chiesto di scegliere: poteva farla franca, ma la pena per il suo braccio destro e amico di sempre, sul quale scaricare ogni colpa, sarebbe aumentata; l’alternativa era dividersi la responsabilità e farsi il carcere. Optò per la seconda.
Il senso di sé
Aveva un suo codice di valori: cattivo sì, ma col senso dell’onore e della lealtà, specie verso gli amici. Un codice inquinato, certamente, ma lui l’aveva. Provò anche a salvare la vita al cugino omosessuale, che i boss di allora condannarono a morte perché la Mamma di San Luca non tollerava ‘ndranghetisti gay. Ci provò, non ci riuscì. Oggi manifesta la sua sofferenza per questo. Nato per comandare, da un lato, insofferente al comando, dall’altro. Divenuto uomo, dopo aver scontato carcere su carcere, dopo aver ammazzato e fatto ammazzare, divenne il capo di una sua giovane ’ndrina, inizialmente forse sottovalutata, anche dalla magistratura inquirente. C’è una sua affermazione singolare che dimostra il diverso approccio alla malavita e il senso che aveva di sé. I magistrati avevano capito che a Vibo Valentia il sentirsi malandrini, per esempio, passava anche per il non pagare per la spesa. Quando il pubblico ministero gli chiese se anche lui, come molti altri, fosse abituato a non pagare in quel supermercato, la sua risposta fu candida: «A dotto’, ma mi avete preso per un accattone?». Ecco chi è, dunque, Mantella. Ed ecco il senso che aveva di sé.
La storia di Benito Fortuna
Non è però Andrea Mantella il primo collaboratore di giustizia della città di Vibo Valentia. Nel 1999 un ragazzo provò a saltare il fosso. Si chiamava Benito Fortuna. Era affiliato ai Bonavota di Sant'Onofrio, ma al tempo stesso cugino dei Mantino di Vibo Marina ed operava per le rapine a Vibo città insieme ai vibonesi. Poi fu arrestato e decise di parlare. Partendo dal profilo di Antonio Grillo, che tutti conoscevano come “Totò Mazzeo”, rappresentato come una sorta di gangster che teneva sotto controllo il cuore della città per conto dei boss locali, offrì un affresco dettagliato di cosa fosse Vibo Valentia. Era però un ragazzo fragile: non era un grande criminale, non aveva il temperamento del mafioso. Non era Mantella e non aveva ciò che Mantella definiva il «coraggio». Quel ragazzo ebbe la forza di parlare, ma non ne ebbe abbastanza per continuare. E qualche tempo dopo si tolse la vita: aveva solo 26 anni. Una storia dolorosa, che segnò l’inizio di un silenzio interrotto solo dopo anni, dalla clamorosa decisione di Andrea Mantella: uno devastante con le armi in mano e da aspirante padrino ieri, devastante come collaboratore di giustizia oggi.
Racconta anche, Mantella, che un giorno ebbe un’illuminazione e che la Madonna l’avrebbe indotto a lasciare la sua vecchia vita da criminale. Le vie del Signore saranno sì infinite, ma illuminante, probabilmente per lui, lo fu forse di più la scelta che fece Raffaele Moscato. La svolta epocale, quella che segnò un prima e un dopo nella storia del crimine nel crocevia della ‘ndrangheta, fu forse questa.
Lupo solitario, criminale vero
Ma chi è Raffaele Moscato? Anch’egli crebbe in un microcosmo da Gomorra, tra Vibo Marina e Piscopio, e quando vieni allevato a pane e malavita non hai scampo. Moscato, dai suoi racconti e diversamente da Mantella, non agiva di pancia. E non ne faceva una questione di paura o di coraggio. Sparare, fare una rapina, ammazzare, per il suo gruppo, quello dei Piscopisani, era qualcosa di normale a cui era talmente abituato che non ci faceva neppure caso. Non era un capo, a volte era una sorta di lupo solitario, ma era – Moscato – un criminale vero. Ed è forse, tra i collaboratori dell’epoca recente, colui che ha più di ogni altro convintamente abbracciato la causa della giustizia per cambiare vita.
La clamorosa confessione
Sempre in prima linea, armi corte e lunghe in mano. Poteva farsi qualche anno di carcere e, una volta uscito, “guardarsi” da quanti avevano progettato di farlo fuori. Poi, invece, la decisione improvvisa di parlare e di confessare l'esecuzione materiale dell'omicidio di Fortunato Patania: il boss di Stefanaconi la cui morte scatenò l’ultima guerra di mafia nella provincia di Vibo Valentia. Fu lui ad ammazzarlo. E questa inaspettata rivelazione costrinse le autorità inquirenti a riscrivere per buona parte la storia di quell’agguato: tutti convinti che avesse sparato Francesco Scrugli, che per questo poi fu a sua volta assassinato. È preciso, lucido, freddo e circostanziato, Moscato. Com’è stato nella malavita, è oggi al servizio dello Stato, autoaccusandosi e accusando.
La “vendetta” di Arena
Dal primo, Moscato, all’ultimo, Bartolomeo Arena. Arena ha una storia completamente diversa da Mantella e Moscato. Il padre, Antonio, aspirante boss tradito dai suoi sodali e fatto sparire: questo segnò per sempre la sua vita, il desiderio di vendetta, ma anche di rivalsa verso quel mondo nel quale dovette crescere da solo. Anche il nonno materno era un uomo d’onore rispettato, ma era suo padre - se non l’avessero ammazzato - che aveva il temperamento per farsi strada nel crimine organizzato. Bartolomeo crebbe con questo mito, “studiò” da malandrino: se doveva menare le mani lo faceva; accoltellare, accoltellava; sparare, sparava. Acquisì una preparazione quasi accademica su riti e organizzazioni di ‘ndrangheta.
Il coraggio e la bontà
Aveva sì “coraggio” ma non nei termini di Andrea Mantella, che lo concepiva come la capacità di agire senza farsi scrupolo, senza curarsi delle conseguenze, su se stessi e sugli altri, del dolore che si arrecava, senza curarsi se fosse “giusto” (ammesso che ci possa essere giustizia in un delitto) o sbagliato. Bartolomeo - da ciò che emerge dai suoi racconti, dettagliati e quasi eruditi quando si sofferma sulle strutture criminali - aveva qualcosa di profondamente diverso da Mantella e Moscato: era una persona buona, che se riteneva “ingiusto” un crimine prendeva tempo o si rifiutava. Gli scrupoli se li faceva. Si domandava le conseguenze che avrebbero avuto le sue azioni. Non uccise mai e, anzi, scelse di collaborare con la giustizia per salvare la vita ad un uomo del clan rivale, scongiurando la possibilità che la città nella quale era cresciuto, Vibo Valentia appunto, sprofondasse nel terrore di una nuova guerra di mafia. Per certi versi, ha avuto più coraggio di ogni altro, iniziando a collaborare da uomo libero e consentendo al pool di Nicola Gratteri di ricostruire le dinamiche criminali più recenti che hanno interessato la città capoluogo di una provincia tornata ad essere una polveriera.
Il Mancuso ribelle
L’ultimo asso, ma è forse il più significativo alla luce del nome che porta: Emanuele Mancuso. Un Mancuso di quelli proprio originali. Figlio di “Luni l’Ingegnere” e nipote di Peppe, Diego e Francesco, pronipote di Luigi e degli altri “zii grandi”. Tipo borderline, imprevedibile, una vera e propria autorità – parola di Nicola Gratteri – nel campo della produzione e dello smercio di marijuana. Ha spezzato quel primato del quale il prozio Pantaleone (alias "Vetrinetta") e lo zio Diego andavano fieri: «Mai avuto un pentito in famiglia». Istintivo e indisciplinato ma dall’intelligenza finissima. Ad un certo punto ha compreso che c’era un altro mondo oltre quello che aveva conosciuto osservando da vicino gli affari di famiglia e mutuando un certo agire. Una scelta per cambiare vita, quella di collaborare, ma la sua è stata forse la più difficile tra tutte: per il cognome che porta, per il tormento che gli è stato arrecato e che viene raccontato in una drammatica recente indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che ha portato perfino all’arresto di sua madre. Ed è proprio quell’inchiesta del pool di Gratteri, quasi passata inosservata nell’onda lunga di Rinascita Scott, che oggi ci consegna la maturità di un ragazzo che affidandosi allo Stato ha segnato un passaggio generazionale per quella famiglia al cui passaggio – raccontano altri collaboratori di giustizia, calabresi e siciliani - «non cresceva più l’erba».
Gli altri
Seguendo questo esempio, sono venuti fuori anche altri collaboratori come Giuseppe Comito, da Bivona, e Nicola Figliuzzi, dalle Preserre, che tra una nuova vita sotto protezione e marcire in galera hanno scelto la prima soluzione. Narrato utile, prezioso, il loro ma non cruciale come quello di Mantella, Moscato, Arena e Mancuso. Collaborano, oggi, anche altre figure minori nello scenario delinquenziale, come Salvatore Schiavone, da Nicotera. Segno che i tempi sono cambiati e che, da Moscato in poi, nulla è più come prima.