L’assassinio di Michele Tavella come quello del boss newyorkese Albert Anastasia, ad un anno esatto dalla scomparsa di Antonino Galati. Le indagini dei carabinieri gettano luce sui fatti di sangue nei territori di Pasquale Pititto, il boss in carrozzina
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Fu un omicidio dalle modalità evocative, quello di Michele Tavella. Il 7 ottobre del 2006, alle 19.30, venne assassinato a Mileto, a colpi d’arma da fuoco, mentre era seduto in una sala da barba, proprio come Albert Anastasia, il gangster italo-americano trucidato a New York nel 1957. L’acme di un regolamento di conti che stava per riportare l’antica capitale normanna nel clima della faida degli anni ’80 e ’90: su quella vicenda, sulla scia di sangue che la precedette e sugli accadimenti successivi, l’indagine Maestrale-Carthago (pur non elevando imputazioni, al momento) getta un poderoso fascio di luce, grazie alle indagini condotte dei carabinieri della Compagnia di Vibo Valentia, condensate nel fermo d’indiziato di delitto spiccato dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.
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Secondo la ricostruzione poi sottoscritta dal procuratore Nicola Gratteri e dai pm Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci e Andrea Buzzelli, la genesi del cruento conflitto che riportò Mileto nel terrore risale al gennaio 2005, quando Antonino Galati, nipote di Pasquale Pititto (il boss già ergastolano, finito su una carrozzina dopo un agguato subito nella guerra di mafia ’80-’90) acquistò un terreno in località Maretto, a ridosso di una masseria della famiglia Tavella. I rapporti di vicinato divennero subito pessimi ed il 7 ottobre del 2005 la lupara bianca inghiottì Antonino Galati, del quale fu rinvenuta solo l’autovettura bruciata. Un affronto per Pasquale Pititto, che secondo gli inquirenti ordinò una «immediata reazione». Il 21 dicembre dello stesso anno, quindi, i fratelli Michele e Benito Tavella diventarono bersaglio di un agguato consumato a colpi di fucile, riportando solo lievi ferite e scampando così alla morte.
Per Michele Tavella era solo questione di tempo e così, il 7 ottobre 2006, ad un anno esatto dalla scomparsa di Antonino Galati, due sicari entrarono nella barberia e lo trucidarono sotto una pioggia di fuoco. Che a volerlo morto fosse Pasquale Pititto in persona, lo dice anche Andrea Mantella, l’ex padrino emergente di Vibo Valentia che dopo una vita di crimini e omicidi ha intrapreso la collaborazione con la giustizia. Pititto, in particolare, aveva condiviso il suo progetto di morte con Francesco Scrugli, cognato e braccio destro dello stesso Mantella a sua volta assassinato nel 2012 nella faida tra il clan dei Piscopisani ed i Patania di Stefanaconi: «Erano rimasti d’accordo che sarebbe stato ucciso dal primo che fosse riuscito a portare a compimento l’atto», la ricostruzione del superpentito.
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Pititto aveva la forza per sterminare i Tavella e lo avrebbe fatto a scopo preventivo, cioè per esorcizzare eventuali reazioni, ma decise di siglare una sorta di pax con Fortunato Tavella, padre dell’ucciso Michele, oltre che di Benito e Rocco. I figli, però, sarebbero stati contrari alla cessazione delle ostilità, bramando vendetta per il congiunto assassinato nella barberia. Quando fu arrestato, prima, Fortunato Tavella, per il possesso di una santabarbara (che comprendeva sei fucili, di cui uno di precisione, cento cartucce e dell’esplosivo) e, successivamente, Benito Tavella per il possesso di una pistola 7.65 e di uno scooter rubato, Pasquale Pititto avrebbe compreso che i conti andavano chiusi. Così, appena fu scarcerato, Benito cadde in un agguato: sopravvisse, ma rimase paraplegico.