Maria Francesca Marino, questo il nome della giovane di Santa Maria del Cedro, contesta i criteri di accesso agli aiuti: «Non si tiene conto di quelle che sono le situazioni particolari che si concretizzano nelle realtà sociali»
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Dopo oltre un anno di pandemia l'Italia tutta arranca. Quattordici medi di restrizioni cominciano a gravare pesantemente sulla psiche dei cittadini ma anche sulle loro tasche. Dopo gli aiuti economici iniziali e l'ondata di solidarietà, il commercio italiano si sta piano piano sgretolando sotto i colpi incessanti di chiusure imposte e conseguenti fallimenti. Con l'arrivo del nuovo premier Mario Draghi, si è passati ai "ristori" per possessori di partite Iva e in particolare per i ristoratori, categoria tra le più colpite dalla crisi economica. Gli aiuti ideati dal governo presieduto dall'economista e banchiere, sembrano però escludere molti commercianti. Tra coloro a cui è concesso accedere agli aiuti ci sono esclusivamente i commercianti che fanno registrare “l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 inferiore almeno del 30 per cento rispetto all’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2019”.
Il grido d'aiuto
Maria Francesca Marino è la figlia di una coppia di ristoratori di Santa Maria del Cedro che nei giorni scorsi ha inviato una lettera dai contorni inquietanti all'indirizzo dell'attuale presidente del Consiglio dei Ministri, spiegando quanto sia ingiusto e illogico, a parer suo, tenere fuori dagli aiuti chi, come nel caso della sua famiglia, lo scorso anno ha perso meno del 30% del fatturato. Nella missiva, la giovane evidenzia come a pagare le spese siano sempre le piccole imprese, che solitamente fanno il triplo degli sforzi per andare avanti.
L'accorata lettera
«Gentilissimo Presidente Mario Draghi,
Sono Maria Francesca Marino, Le scrivo in veste di figlia di ristoratori, in quanto mi preme sottolineare la condizione nella quale verte questa categoria, e in generale il settore delle piccole imprese. Condizione a Lei ovviamente non sconosciuta, ma che desidero comunque sottoporre alla Sua attenzione. Lo farò con uno sguardo particolare alla situazione inerente all’attività della mia famiglia, che credo però comune a molte altre.
Ebbene, può risultare superfluo, ma non per questo trascurabile, evidenziare la pressione, lo sforzo e anche il sacrificio a cui alcune categorie, e la suddetta in particolare, si trovano a far fronte, ormai da più di un anno, a causa delle restrizioni imposte per contenere la pandemia da Covid-19. È indubbia l’importanza che tali misure svolgano nel porre un freno al contagio, ed è dovere di tutti attenersi ad esse, con spirito di solidarietà, nella tutela dell’interesse collettivo della salute pubblica. Allo stesso modo, è chiaro che le stesse esercitino forti ripercussioni in termini economici per tutte quelle categorie di imprese che si sono viste costrette ad interrompere le proprie attività lavorative, e che da un anno a questa parte si ritrovano a ruotare in un limbo, fatto di aperture, chiusure o semi aperture, dal quale non si vede via d’uscita.
La situazione nella quale ci ritroviamo è di portata tale da non poter essere imputata a nessuno, neppure agli Organi Governativi, se non al dilagare del virus stesso, che impone soluzioni in questo senso. Il compito che invece attiene al ruolo del Governo, e dello Stato in generale, dovrebbe essere quello di arginare il più possibile le pressioni socio-economiche che da esse scaturiscono, e fare in modo che non si traducano inevitabilmente in diseguaglianze sociali. È proprio quest’ultimo il punto che vorrei porre all’attenzione, e nello specifico faccio riferimento alla disposizione normativa del Decreto-Legge del 22 marzo 2021 n.41, art.1, comma 4., la quale prevede che si potrà accedere al sostegno solo nella misura in cui “l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30 per cento rispetto all’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2019”.
Un’impresa che non rientra nella perdita del 30% del fatturato, seppur per una minima percentuale, essendo comunque stata costretta a limitare la propria attività lavorativa, o ad essere sottoposta a chiusura, si trova a non ricevere nessun contributo economico. Questo vincolo di accesso al fondo non sempre è indicativo del reale stato economico di un’impresa, in quanto, questo dato, se preso isolatamente e senza considerare il reddito effettivo e le spese sostenute per l’attività produttiva, non fotografa la reale situazione economica in cui la stessa attività verte.
Una previsione di questo genere non tiene conto di quelle che sono le situazioni particolari che si concretizzano nelle realtà sociali. Ovviamente non si può pretendere che una fattispecie normativa possa prevedere tutte le ricadute che si avranno nei casi concreti, ma almeno si spera che possa tendere alla maggiore equità possibile.
Riferendomi al caso concreto dell’attività della mia famiglia; si tratta di una piccola impresa di ristorazione a conduzione familiare, avviata nell’agosto del 2017, nel centro storico di Santa Maria del Cedro, un paesino in provincia di Cosenza, contesto nel quale si vive prevalentemente di turismo stagionale. Questa nel corso del tempo era protratta verso una crescita, aspetto fisiologico delle attività di impresa nei primi anni di avviamento. Malgrado ciò, ci siamo trovati nel 2020 ad avere un fatturato minore che nel 2019, registrando una perdita del 25%. Perdita che viene valutata nell’impostazione del Decreto su indicato come non idonea per poter accedere al contributo previsto. Questo vincolo percentuale non tiene conto del reddito effettivo prodotto, delle spese che sono state sostenute (anche nel corso del 2020, proprio per fare fronte alla situazione dovuta alla pandemia) e non dà evidenza della portata reale del detrimento subito. Ci siamo pertanto ritrovati ad essere tagliati
fuori da una misura di sostegno, la quale risulta necessaria, per affrontare le spese quotidiane, non solo quelle legate all’impresa, ma anche alla vita familiare.
Considerando, inoltre, che la nostra, cosi come molte altre attività, continuano ad essere chiuse, la situazione diventa sempre più drammatica. In questo contesto, risulta ancora più iniquo non prevedere a priori un sostegno, almeno nella misura del minimo, in favore di attività sottoposte a chiusura forzata.
Mi sono permessa di esporre la mia personale esperienza, perché sono sicura che non sia un caso isolato, ma che, anzi, inciderà su diversi operatori economici del settore e non solo, i quali si ritroveranno nelle medesime condizioni. Condizioni che non faranno altro che acuire le disparità in ambito economico che questa pandemia si trascina dietro.
Se è vero che il benessere di una collettività all’interno dello Stato si misura guardando al benessere degli individui più svantaggiati, partendo dal presupposto che il nostro sistema sia improntato sul principio dell’equità, questa deve essere faro - guida di tutte le decisioni, soprattutto di quelle misure che. in questo momento così particolarmente difficile per il settore economico, si pongono come obiettivo il sostegno agli operatori economici e il superamento delle diseguaglianze sociali.
Non bisogna sottovalutare il fatto che tutto questo si intreccia con il valore della Dignità degli individui e, in questo caso particolare, della Dignità di chi lavora. Mi scuso per essermi dilungata nell’esporre la questione e che lo abbia fatto con una certa enfasi, ma nasce da una reazione d’impulso dovuta proprio dalla condizione socio-economica alla quale siamo
soggetti.
Ringrazio in anticipo per l’eventuale attenzione che sarà data a questa mia riflessione. La prego di accogliere un mio gentile saluto.
Maria Francesca Marino».