Lo scontro al calor bianco tra politica e magistratura infiamma il dibattito. Il caso Almasri ne è soltanto una parte. Il cuore dello strappo è la riforma della giustizia: le immagini dei magistrati che abbandonano le aule in cui si inaugura l’anno giudiziario quando prende la parola il rappresentante del Governo restano come memoria visiva di un contrasto che, più o meno palesemente, va avanti da trent’anni. Ora, davanti alle indagini sul rimpatrio del generale libico accusato di essere un torturatore di migranti e ricercato dalla Corte penale internazionale, tornano in auge vecchi parole per dare sostanza a una spaccatura verticale tra poteri. Ne abbiamo discusso con il sostituto procuratore della Repubblica di Patti Andrea Apollonio.

Alcuni ministri ed esponenti del governo, ma anche qualche intellettuale, hanno proposto il ripristino dell'immunità parlamentare. Dottor Apollonio, di cosa parliamo?

«Della riforma dell'articolo 68 della Costituzione. Originariamente, questo articolo prevedeva un’immunità ben più ampia di quella attuale, con il Parlamento che doveva autorizzare anche l’avvio delle indagini su un parlamentare, onde evitare - anche solo in astratto - l'interferenza dell'autorità giudiziaria nell'attività legislativa. Oggi invece il parlamentare può essere indagato, ma gode di alcune garanzie: per esempio, non può essere intercettato salvo che non si ottenga una preventiva autorizzazione dalla Camera di appartenenza».

Perché l'articolo 68 fu cambiato?

«Fu una scelta di pancia della classe politica, che la gente sull’onda di Tangentopoli riteneva corrotta e per di più impunita. I partiti in declino, in quel contesto storico, si giocarono l'ultima carta per rimanere a galla: la riscrittura della Costituzione, attraverso cui tentare una disperata operazione di immagine. Il messaggio era rivolto alla gente: vedete, noi parlamentari ci facciamo processare. Ma quella classe politica fu comunque spazzata via nel giro di pochi mesi».

Fu un errore?

«Ragionando a posteriori, sì. L'istituto dell'immunità parlamentare aveva garantito fino a quel momento, e per quasi cinquant'anni, l'equilibrio tra i poteri dello Stato: quello esecutivo-legislativo da un lato, e quello giudiziario dall'altro; e non a caso quella che oggi viene definita "la guerra dei trent'anni" si inaugura con l'invito a comparire per corruzione recapitato a Berlusconi nel 1994, durante un importante summit internazionale. Quell'episodio giudiziario non si sarebbe potuto verificare con la previgente versione dell'articolo 68. I problemi di oggi nascono ieri, in quel momento».

A quali problemi di oggi si sta riferendo?

«Al conflitto ormai esasperato e tossico tra politica e magistratura. Adesso ci si muove in un quadro carico di tensione, in cui la compagine governativa ritiene compromesso l'equilibrio tra i poteri. E con questa riforma intende riscrivere la Costituzione nella parte che riguarda la magistratura. Per di più, a colpi di maggioranza».

Non possiamo però tacere il fatto che da circa trent’anni, in un crescendo inarrestabile, diverse procure hanno peccato di sovraesposizione mediatica e di un eccessivo protagonismo.

«È vero. Dal 1993 in poi ci sono state inchieste giudiziarie costruite sul nulla che hanno fatto cadere i governi; mentre l'esercizio della giurisdizione richiede sempre equilibrio e ponderazione. Per quella stagione di insulso protagonismo giudiziario stiamo pagando tutto e a caro prezzo... Ma la riforma costituzionale della magistratura non elimina questi rischi, anzi li amplifica, perché il pubblico ministero si sentirà sempre più "poliziotto" e sempre meno "giudice". Ricordo una straordinaria vignetta di Forattini del 1994, che ritraeva Di Pietro con una spada sguainata. Mancava la bilancia, che nell'iconografia tradizionale della giustizia c'è sempre».

Antonio Di Pietro?
«Proprio lui. Il quale ha dichiarato che è favorevole alla riforma».

Ripristinare l'immunità parlamentare, così com'era, può servire?

«Ragionando in astratto, ripristinerebbe quell'equilibrio fra i poteri che ha garantito - pur con fisiologici sussulti - la tenuta del Paese. Ovviamente, a quel punto sarebbe oltremodo pericoloso procedere con la riforma costituzionale della magistratura. Lo squilibrio dei poteri a favore della politica sarebbe conclamato».

Perché, lei vede dei rischi legati a questa riforma? I cittadini, però, ritengono che la giustizia debba essere riformata....

«Ai cittadini bisogna spiegare a chiare lettere che un potere giudiziario debole non giova a nessuno, se non al governante di turno. Se la magistratura è debole, e la politica è forte, i diritti dei cittadini, in questo gioco al ribasso, rimangono stritolati nel mezzo. Guardate quello che sta accadendo negli Stati Uniti: la gente sta scendendo in strada perché le politiche di Trump contro la magistratura stanno minacciando diritti politici e sociali ormai acquisiti da decenni».

Sta dicendo che nella riforma della magistratura ci vede una deriva autoritaria?

«Non sono tra quelli che ritengono allo stato possibili svolte autoritarie. Abbiamo una solida cultura costituzionale, e vedo esponenti della maggioranza di governo che sono promotori di questa cultura. Proprio per questa ragione, invito a riconsiderare i termini della riforma in atto, perché con essa si indebolisce molto sia il governo autonomo della magistratura sia il pubblico ministero, che verrebbe sganciato dalla comune giurisdizione. Si indebolisce, ripeto, un potere dello Stato posto a fondamento dell'ordinata vita democratica del Paese. È un gioco a perdere, soprattutto per i cittadini, che sono i fruitori del servizio-giustizia».

L'effetto concreto di questa riforma quale potrà essere?

«Più che gli effetti, io temo, in prospettiva, i rischi di tenuta del sistema. Se mi consente di recuperare la condivisibile espressione di un leader politico, utilizzata in una recente intervista: "Una giustizia durissima contro la gente comune ma piegata al controllo del governo di turno". È ciò che temo. E se così fosse, l'effetto sul piano della tenuta sociale del Paese sarebbe devastante».

Chi è il leader politico?

«Non lo dico. Perché quando le analisi sono esatte non vale il colore politico».

Crede davvero che la politica possa fare marcia indietro?

«In questi giorni sto rileggendo per l'ennesima volta "Una storia semplice" di Leonardo Sciascia. Le rispondo con la frase di Durrenmatt che egli scelse quale esergo dello scritto: "Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia"».

Lei dice che mettere sul piatto il ripristino dell'immunità parlamentare, così come era in origine, può servire?

«In un momento come questo, tutto può servire, purché si torni al confronto».