Il militare venne barbaramente assassinato a Bovalino nel 1990 in una serata di festa. Oggi il figlio Francesco è diventato membro dell'Arma
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Non con le armi, ma con il fiuto tipico del grande investigatore. Antonino Marino la ‘ndrangheta la combatteva così. Un carabiniere carismatico, stimato dai colleghi e temuto dai criminali. Un militare che 28 anni dopo la sua morte viene ancora ricordato lì, a Bovalino, per anni la sua seconda casa. Il brigadiere aveva 33 anni quando venne ucciso. Per molto tempo alla guida della caserma di Platì, ha operato anche nei paesini dell’hiterland della Locride, nel cuore dei domini controllati dalle cosche ‘ndrangheta, quelle feroci dell’anonima sequestri dell’Aspromonte e quelle che facevano gli affari al mare.
Gli anni dei sequestri
Profondo conoscitore della criminalità organizzata locale, giovanissimo ma determinato, ha dato sin da subito gran filo da torcere ai delinquenti. Come comandante della stazione platiese si impegnò per la soluzione del sequestro del piccolo Marco Fiora e contribuì a sventare il sequestro dell’imprenditore ligure Claudio Marzocco. Le cronache dell’epoca raccontano che fu proprio grazie anche all'azione di contrasto del brigadiere che i sequestratori furono costretti a lasciare l'ostaggio incustodito, consentendogli di liberarsi e fuggire dalla prigionia nel febbraio del 1988. Quando nello stesso anno si sposa con una donna della Locride, poiché il regolamento dell'Arma imponeva il cambio del luogo di servizio, viene trasferito a San Ferdinando, vicino Rosarno.
Il 9 settembre 1990
La sera del 9 settembre 1990 la festa si trasforma in tragedia. Marino, vestito in borghese, e la sua famiglia sono stati sorpresi in un momento di relax. Lui era seduto a godersi un pò di fresco davanti alle montagne di Bovalino Superiore per la festa della Madonna. Intorno, moglie, figlio, amici e conoscenti. La gente, un pò più in là, per guardare i fuochi d'artificio, il via ufficiale dei festeggiamenti. Poco dopo la mezzanotte di un sabato il killer è piombato all'improvviso e, approfittando della baraonda, ha iniziato a sparare, dileguandosi poi nel buio. Marino fu colpito al torace ed allo stomaco, ferite letali che lo portarono alla morte, nonostante i medici dell’ospedale di Locri lavorarono per ore cercando di salvargli la vita. Nell’agguato rimasero feriti anche la moglie incinta, Rosetta Vittoria Dama e di striscio il figlio di 1 anno. Quel bambino oggi è un uomo, si chiama Francesco e, sulle orme del padre, è diventato tenente nell’Arma dei Carabinieri.
Le rivelazioni del pentito
L'episodio creò una ondata di sdegno e i funerali si svolsero in una atmosfera di tensione. Le indagini si indirizzarono fin dal principio sulla sua attività di investigatore contro la 'ndrangheta, in particolare ai suoi anni trascorsi a Platì, dove il brigadiere, anni prima dell'assassinio, aveva già subito un attentato dal quale era uscito illeso. Per molti anni il delitto rimase avvolto nel mistero, fino alle rivelazioni del pentito di mafia Antonino Cuzzola. L’uomo della cosca cosca Paviglianiti-Latella, riferirà nel 2005 agli inquirenti che la morte del Brigadiere è stata ordinata dal gotha delle cosche di Platì. Secondo la ricostruzione di Cuzzola, la decisione di uccidere Marino era maturata per motivi di risentimento dovuti alla condotta rigorosa che questi aveva portato avanti negli anni in cui aveva operato a Platì, e soprattutto proprio contro la cosca dei “Castanu”.
Le indagini ed i risvolti processuali
Il pentito confermò le accuse in sede processuale, ma il Gup intervenuto in quanto il processo si svolse con il rito abbreviato, nel febbraio 2011 pronunciò sentenza di assoluzione con formula piena per tutti gli imputati. L'11 maggio 2012 la Corte d'assise d'appello confermò la sentenza di assoluzione in primo grado, lasciando ancora insoluto il delitto del brigadiere. La Cassazione, non condividendo l’assoluzione in Appello dei due imputati, rinviò nuovamente tutto a Reggio Calabria per una più approfondita valutazione. Fondamentali in tale ottica sono state alcune intercettazioni dell’inchiesta “Platino” relativa alla presenza della ‘ndrangheta in Lombardia, nelle quali si faceva proprio riferimento al brutale assassinio, che hanno portato alla riapertura del dibattimento conclusosi con la condanna dei giudici della Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria a 30 anni di reclusione per Francesco Barbaro, ritenuto l'esecutore materiale e per Antonio Papalia, ormai di 75 anni, ritenuto il mandante dell'omicidio del brigadiere.
La medaglia d'oro al valor civile
Il 2 settembre 1993 al militare è stata conferita la Medaglia d'oro al valor civile con la seguente motivazione: «Comandante di Stazione impegnato in delicate attività investigative in aree caratterizzate da alta incidenza del fenomeno mafioso, operava con eccezionale perizia, sereno sprezzo del pericolo e incondizionata dedizione, fornendo determinati contributi alla lotta contro efferate organizzazioni criminali fino al supremo sacrificio della vita, stroncata da vile agguato. Splendido esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere».
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