Secondo Eurispes il giro d’affari della 'ndrangheta si attesta attorno ai 60 miliardi di euro, pari a più del 3,6% del pil italiano. Eppure, nonostante numeri da capogiro che fanno impallidire molte tra le più importanti holding internazionali della finanza, la criminalità organizzata calabrese sembra non riuscire a liberarsi di un’ossessione: il pane, rappresentazione per antonomasia del bene primario.

Ce lo ha ricordato a chiare lettere l’operazione “Maestrale-Carthago”, dalle cui pieghe è emerso come le cosche vibonesi intendessero imporre ai panifici di tutta l’area il prezzo di vendita. Una quota di 2,50 euro al chilogrammo, senza possibilità di trattativa. E per chi decideva di contravvenire alla regola, i guai erano dietro l’angolo.

L’interrogativo è consequenziale: perché una multinazionale del crimine che “fattura” decine di miliardi di euro ogni anno si preoccupa di imporre il prezzo del pane in un piccolo centro del Vibonese? La risposta, che potrà apparire finanche scontata, è quella più semplice: controllare il territorio ed affamare sempre di più chi vi risiede.

La nuova frontiera delle estorsioni

L’imposizione dei prezzi di vendita non è certo di una novità, sebbene la circostanza che si tratti del pane comporta sempre una significativa impressione. Sono innumerevoli, però, le inchieste delle Procure calabresi che hanno disegnato la nuova frontiera delle estorsioni. È ormai raro trovare uno ‘ndranghetista che decida di recarsi in un cantiere o in un esercizio commerciale richiedendo direttamente il pagamento del pizzo. Troppo rischioso, considerati gli attuali sistemi investigativi e le pene molto elevate per i reati d’estorsione. Molto più conveniente è creare una distorsione del mercato, decidendo dove debbano essere acquistati determinati prodotti ed a quale prezzo. Così, è accaduto che ci si è trovati di fronte a casi in cui le materie prime di bar e pasticcerie dovevano essere acquistati solo da determinati grossisti, che praticavano prezzi nettamente superiori ad altri. Così come, per non andare troppo lontano, anche nel settore dell’edilizia, impianti, materiali di vario genere e rifiniture dovevano rispondere a precise logiche spartitorie, imposte sovente con la violenza e l’intimidazione, nei casi in cui gli imprenditori non fossero inclini ad assecondare i desiderata dei boss di turno.

L’ossessione del consenso: «Date il pane al popolo»

Ma non è sempre una questione di profitto. Per tornare alla domanda d’apertura, ci sono casi in cui la 'ndrangheta ha un unico obiettivo: il controllo del territorio non già attraverso atteggiamenti violenti e vessatori, ma ponendosi quale principale “agenzia del benessere”, coprendo tutte le mancanze dello Stato. Ce lo ricorda plasticamente l’inchiesta “Cartaruga” della Dda di Reggio Calabria, al di là degli esiti giudiziari che hanno visto un netto ridimensionamento delle accuse rispetto alla fase iniziale. Quel che qui rileva, però, è l’idea che viene fuori da un’intercettazione captata dagli investigatori. Uno degli indagati afferma: «Ma dategli il pane al popolo così vi vuole bene, sai quei film quando c’è il re, con il coso…che ti possono dire, il patriota cose…tutti quei film che mi vedo io, e vedevo il re e quello là, il soldato, il bordello, il popolo…allora il popolo che grida che ha fame…allora tu dagli il pane e vedi come li tieni buoni! Ma se voi siete una massa di ingordi e ubbiti, ma come vi possono parlare bene le persone…se io faccio lo stesso che parlano male, mi segui? Perciò non è buono…». Per la 'ndrangheta, insomma, ciò che conta è “dare il pane al popolo” così che lo stesso sia riconoscente. Un manuale perfetto di acquisizione del consenso mafioso, laddove l’espressione del pane è certamente di portata più ampia, pur rappresentando comunque l’idea di quel bene primario che è possibile tradurre anche con un posto di lavoro o la “protezione” di un commerciante.

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Un welfare parallelo. I De Stefano e le scarpe alla città

C’è un altro emblematico esempio in cui la 'ndrangheta costruisce il suo modello di welfare parallelo e alternativo rispetto allo Stato. Lo dipinge a chiare lettere nientemeno che il figlio di Paolo De Stefano, Giuseppe, elemento di vertice assoluto della consorteria mafiosa di Archi, almeno sino al momento del suo arresto avvenuto nel dicembre 2008.

Interrogato dall’allora sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, De Stefano racconta di quando il padre – erano i primi anni ’80 – gli disse: «Usciamo a comprare un paio di scarpe e a pagare i debiti che ho con i calzaturifici di Reggio Calabria». All’epoca un paio di scarpe costava in media 20 mila lire. Paolo De Stefano, nel racconto del figlio, salda un conto pari a circa 60 milioni di lire. Solo di scarpe. Le parole del rampollo del clan non lasciano spazio ad interpretazione: «Dottore Lombardo, Reggio cammina sulle scarpe che gli abbiamo messo noi. Cammina sulle nostre scarpe». È di tutta evidenza come l’espressione utilizzata da De Stefano sia sintomatica non solo dell’acquisto delle scarpe per mezza città, ma di qualcosa di molto più radicato: la cosca, capeggiata dal padre, era entrata in un rapporto tale con il territorio per cui gran parte dei cittadini avevano quasi un sentimento di riconoscenza nei riguardi degli esponenti mafiosi. Il tutto in una città dalla percentuale di povertà altissima.

Affamare il popolo fingendo di sostenerlo

Ed è qui che arriva il nodo cruciale. Perché l’effetto più subdolo prodotto dalla 'ndrangheta è esattamente quello di far credere di produrre benessere, talvolta sostituendosi allo Stato con politiche di welfare raffazzonate, mentre, in realtà, è esattamente il contrario. È proprio l’attività criminale che produce una tale distorsione dell’economia, sì da generare sempre maggiore povertà nei luoghi già economicamente depressi. Ne consegue un circolo vizioso in cui le cosche, nello stesso tempo, creano estreme sacche di povertà e pongono le condizioni di una faticosa sopravvivenza ergendosi quali portartici dell’unico benessere possibile.

Ciò, attenzione, non vale solo per il “popolo” a cui bisogna dare il pane per farlo stare buono. Vale tanto più per la stragrande maggioranza degli stessi affiliati alla 'ndrangheta. Non molto tempo fa, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha affermato come «solo il 2-3% degli ‘ndranghetisti sono ricchi. Persone che hanno stanze piene di euro o dollari. Gli altri sono morti di fame, inutili idioti, stolti, stupidi che pensano di farsi battezzare dalla 'ndrangheta per fare la scalata e diventare potenti, senza capire, invece, di essere semplici garzoni che moriranno in carcere o uccisi».

Eccolo il grande inganno della 'ndrangheta. Creare un esercito che pensa di contare qualcosa, quando, in realtà, non conta assolutamente nulla. Un esercito pronto a rischiare la vita o decenni di detenzione, pur di sognare una scalata al potere che non ci sarà mai. Un fenomeno che, in misura diversa e per ragioni certamente differenti, riguarda anche quel popolo che, molto spesso spinto da uno stato di necessità, finisce per mettersi sotto la protezione mafiosa, elemosinando qualche spicciolo pur di tirare a campare.

I numeri di tutti i più autorevoli report lo dicono a chiare lettere: le mafie ricche non investono mai nei territori di provenienza, se non per una minima parte necessaria a riaffermare presenza e potere. Sono proprio quei territori a continuare ad essere i più poveri e sottosviluppati. Ed è qui che torna la risposta alla domanda che ci si è posti in apertura: perché così tanta importanza al pane ed al suo prezzo? Perché è da lì che le cosche traggono linfa vitale. Quel controllo territoriale che non può mancare perché la tradizione non può essere sacrificata neppure in nome dei grandi affari da compiere all’estero. Sul territorio serve continuare ad incutere timore ed agire con sopraffazione. Con l’obiettivo di affamare sempre di più il popolo e, al contempo, dare insignificanti “contentini”.

Una strategia che ha pagato per anni e che rischia di essere ancora oggi produttiva, almeno fino a quando non si comprenderà che questo non può essere solo un problema da affrontare nelle aule giudiziarie. Fino a quando i vuoti creati dalle inchieste e dagli arresti non saranno riempiti dallo Stato (rectius, dalla politica), il meccanismo del “pane al popolo” continuerà a rappresentare l’appiglio finale cui rivolgersi per sopravvivere da parte di un tessuto socio-economico sempre più fragile e quindi controllabile. Da qui quell’ossessione mai sopita delle ‘ndrine verso i beni primari. Riuscire a soddisfarli significa conservare il determinante consenso sociale. Fin quando ciò si perpetuerà, per lo Stato il saldo della battaglia con le mafie non potrà che essere sempre in perdita.