La prima vittima della violenta sommossa, i giorni di tensione, l'assalto alla Questura e il miraggio dello sviluppo industriale: l'estate calda del 1970 in riva allo Stretto
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«Penso a quel povero morto che mai avrebbe immaginato che il suo ultimo giorno scadeva nelle file di un corteo… penso a come i parenti racconteranno, nel tempo, la fine dell’operaio: “cadde una sera d’estate, per Catanzaro”». Ci sono le parole di Enzo Biagi, al tempo inviato di punta del Resto del Carlino, a descrivere, nella Reggio che brucia durante il suo secondo giorno di rivolta, l’enormità del primo morto ammazzato registrato durante i moti per il capoluogo. Quarantasei anni, frenatore nelle Ferrovie dello Stato, sposato e padre di un bambino di 9 anni, Bruno Labate viene ritrovato esamine da una pattuglia dei carabinieri poco prima di mezzanotte in via Lagoteta, a due passi da piazza Italia. Morirà prima di arrivare in ospedale, amara conclusione di una giornata iniziata con uno sciopero generale e proseguita con scontri, barricate, molotov e cariche della polizia.
I moti di Reggio
È il 15 luglio del 1970, dalla prima seduta del neo eletto consiglio regionale che avrebbe dovuto tenersi negli uffici della Provincia a Catanzaro (seduta saltata per l’assenza di parte dei consiglieri eletti nel distretto di Reggio) sono passati solo due giorni, ma a Reggio la situazione è già precipitata, esplodendo in una protesta di popolo ancora libera dai “boia chi molla” che, da lì a qualche settimana, trascineranno la città in un incubo urbano lungo quasi un anno. Un incubo che alla fine farà registrare 5 morti, migliaia di feriti, quasi mille arresti e danni per miliardi di lire. Un incubo che covava da mesi – da quando le notizie sulla scelta di Catanzaro come capoluogo cominciarono a farsi strada – e che genererà a sua volta gli inutili “mostri” del centro siderurgico di Gioia Tauro e della Liquichimica di Saline. Un incubo ripercorso nel monumentale “Buio a Reggio”, reportage-diario della rivolta in due volumi edito nel 1971 e curato dal giornalista di Gazzetta del Sud Luigi Malafarina e dagli allora studenti universitari Franco Bruno e Santo Strati.
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Il racconto della stampa
«La battaglia infuria senza esclusione di colpi per alcune ore – scriveva l’inviato de La Stampa, Gianfranco Franci descrivendo le prime ore di quella giornata di battaglia – ad ogni carica, ad ogni carosello di jeep, i giovani scamiciati si disperdono, fuggono per le strade anguste, si rifugiano nei portoni e tornano subito dopo all’attacco. Si fabbricano sul posto bottiglie “molotov” con la benzina succhiata dai serbatoi delle auto in sosta. Poi alcune vetture vengono rovesciate in mezzo alla strada e incendiate». Sembra Beirut, invece siamo a Reggio Calabria che si trova a fare i conti con uno scenario da guerriglia urbana così devastante ed esteso da non avere precedenti nella storia della Repubblica. Vengono innalzate barricate in tutti i punti nevralgici della città e anche le strade di accesso a Reggio, la ferrovia e il porto vengono bloccate dai manifestanti.
Il giorno dopo a Reggio è lutto cittadino, ma la situazione resta tesissima. In seguito agli scontri del giorno precedente infatti il ministro dell’interno Restivo ha inviato in città 800 nuovi agenti di polizia dirottandoli in Calabria da Roma, Bari e Foggia in un muro contro muro che segnerà per sempre la storia della città dello Stretto. Reggio viene divisa in cinque zone presidiate da altrettante colonne “automontate” di cento uomini che passano l’intero pomeriggio a sgomberare le strade. Ma al tramonto, con gli agenti ritornati alla base, i manifestanti ricostruiscono i blocchi e, verso le 21, un gruppo di un centinaio di persone fa irruzione alla stazione Lido appiccando il fuoco e devastandone tutti i locali. Saranno due colpi esplosi da uno sconosciuto (e andati fortunatamente a vuoto) all’indirizzo di una gazzella dei carabinieri nei pressi di ponte San Pietro a chiudere quella giornata di guerriglia urbana in cui anche il normale svolgimento degli esami di Stato venne sospeso.
«La rivolta di Reggio, perché di questo si tratta – scriveva allora sulle pagine del Corriere della Sera il futuro presidente del Senato Giovanni Spadolini – non nasce solo da un esasperato amore di campanile. C’è, nella tragedia di Reggio, la protesta di una città che ha un reddito procapite tra i più bassi della penisola, la dolorosa illusione di un antico centro glorioso che crede di trovare la sanatoria ai propri problemi di sviluppo economico nell’evasione spagnolesca di una “capitale” regionale».
L'assalto alla Questura
Il 18 luglio è il giorno dei funerali di Bruno Labate, prima vittima dei “moti”, e in città la tensione si taglia a fette. Nulla però succede durante l’affollatissimo funerale celebrato, ironia della sorte, in una chiesa vicinissima all’attuale sede del Consiglio regionale. E nulla succede durante il lunghissimo corteo a cui partecipa buona parte della cittadinanza che accompagna la salma verso il cimitero di Condera attraversando le vie del centro. Ma è solo questione di tempo. Poco dopo le 13 infatti centinaia di reggini convergono davanti agli uffici della questura prendendola d’assalto. Non era mai successo prima nella storia del Paese. Solo la decisione di non rispondere all’assalto presa dal questore dell’epoca Santillo – una delle poche decisioni di buon senso di quei giorni – evitò il peggio. Gli agenti si barricarono dentro, limitandosi a spegnere i numerosi incendi provocati dalle molotov.
«Le motivazioni stesse dell’esplosione collerica – scriveva Alfonso Madeo sul Corsera il giorno dopo l’assalto alla questura – sorpassando il dato campanilistico e rivendicativo relativo alla questione del capoluogo, attingono ad una realtà ormai radicalizzata di delusioni, di inquietudini, rabbie, frustrazioni, disinformazioni: alla realtà di una Calabria depressa, mortificata, spogliata, immiserita e pur capace di orgoglio e dignità».
Il miraggio dello sviluppo industriale
Solo a notte fonda le cose torneranno, almeno in centro e solo per poche ore, alla “normalità”, lasciando il posto ad una città in ginocchio, devastata, che nei mesi successivi sarà illusa (e nuovamente tradita) con il miraggio mai realizzato dello sviluppo industriale. Una città che quel che giorno di più di mezzo secolo fa, pianse Bruno Labate «quel povero ferroviere, caduto sul selciato di una nostra città del sud, inutilmente, magari agitando uno di quei cartelli mostrati con orgoglio ai fotoreporter: “reggini svegliatevi, Reggio ci chiama”».