Dalle motivazioni del Riesame che ha confermato il carcere per Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro si evincono le dinamiche che avevano consentito di creare la prima “locale” autonoma ma autorizzata dalla Calabria. Anche i beni sequestrati continuavano a essere nella disponibilità degli indagati
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Una testa per la sponda criminale, una per quella economico affaristica: si muove sul doppio asse Antonio Carzo – Vincenzo Alvaro la cabina di comando della “locale” di ‘ndrangheta scovata a Roma dalla distrettuale antimafia della Capitale: la prima individuata come autonoma rispetto alla “casa madre” all’interno del Raccordo. Sono i giudici del tribunale del riesame di piazzale Clodio, nelle motivazioni che confermano il carcere per i capi della presunta organizzazione, a fissare i paletti che inquadrano il nuovo soggetto criminale legato alle cosche di Cosoleto: una locale capace in pochi anni di infiltrare con denaro sonante l’economia agonizzante di Roma, di tessere accordi criminali con alcune delle cosche di ‘ndrangheta più influenti e di mandare per aria i tentativi di gestione da parte dello Stato dei locali e delle attività che lo Stato stesso gli aveva prima sequestrato e poi posto, inutilmente, sotto amministrazione controllata.
«Come il Papa quando benedice»
«Io ho la raccomandazione di quelli di sotto» dice, inconsapevole di essere intercettato, Antonio Carzo durante una riunione nella sua abitazione romana. Dopo essersi adeguato per anni all’andazzo «a Roma c’è posto per tutti», il crimine organizzato calabrese ha cambiato strategia e la “locale” autonoma guidata da Carzo e Alvaro, sostengono i giudici del Riesame, ne è una delle dirette conseguenze. Una svolta a suo modo epocale, negli equilibri criminali presenti a Roma, quella di una cellula autonoma che pianifica e mette in pratica piani e strategie in totale indipendenza dalla costola madre in Calabria.
Una svolta di cui lo stesso Carzo sente la responsabilità che ne deriva: «Quando siamo stati là – dice credendosi al riparo delle intercettazioni – gli ho detto, io vi ringrazio, vi ringrazio dell’onore che mi avete dato… la responsabilità me la sono presa tutta, e non da ora». Un cambiamento profondo avvenuto grazie all’autorizzazione della “Provincia”, in Calabria: «Abbiamo questa cosa, la stiamo coordinando; noi abbiamo una propaggine di la sotto – dice ancora Carzo – con noi qua e gli Spada là, loro si fanno i cazzi loro, noi ci facciamo i cazzi nostri». E se il presunto capo dell’organizzazione sente il peso della “responsabilità” di guidare la cellula capitolina, i suoi sodali fanno a gara per sottolinearne l’importanza e il prestigio: «Come il Papa quando benedice – dice ossequioso l’indagato Francesco Greco riferendosi al presunto capo dell’organizzazione – gli altri prima di lui che sono anni che sono qua non hanno ottenuto quello che era giusto… perché sei arrivato a Roma ed hai aperto un bel locale… sei come il Papa».
Scacco allo Stato
E se il lato prettamente criminale, quello legato alle liturgie care alla ‘ndrangheta – i “fiori” agli affiliati distribuiti durante le celebrazioni della Madonna della Montagna a Polsi sono poi formalizzati dal presunto boss durante una “mangiata” romana – è di competenza di Antonio Carzo, quello economico è invece affare di Vincenzo Alvaro.
D’altronde l’autorizzazione ad “inaugurare” la nuova cellula capitolina era arrivata «non per ragioni marcatamente militari - scrivono i giudici del riesame - come avviene nei territori di origine, ma di tipo economico e dunque di infiltrazioni nel tessuto commerciale in cui comunque il sodalizio agiva manifestandosi anche in riferimento alla forza di intimidazione».
I gioielli di famiglia
Ed è proprio con la prepotenza figlia della prevaricazione mafiosa che i presunti ‘ndranghetisti portano avanti i propri affari. Anche quando il loro interlocutore è quello stesso Stato che aveva messo i sigilli a parte del patrimonio economico del clan con l’intenzione, dimostratasi illusoria, di gestirlo attraverso gli amministratori giudiziari. Sul piatto ci sono alcuni dei “gioielli di famiglia” che il clan ha, negli anni, acquisito e distribuito a prestanome: il bar Pedone, il Caffè Cellini, il bar Clementi, oltre naturalmente al Cafè de Paris, al cui interno, a seguito del sequestro, gli amministratori giudiziari trovarono in bella mostra un lumino mortuario.
Locali sequestrati, intimoriti gli amministratori del Tribunale
Alvaro, dicono gli inquirenti non ha nessuna intenzione di interrompere gli affari legati alle attività economiche e l’intervento della Magistratura, rappresenta solo un piccolo incidente: «Nonostante gli interventi giudiziari – scrivono i giudici del Riesame – le suddette attività rimanevano però sempre nella disponibilità di Vincenzo Alvaro che le gestiva tramite prestanome spendendo abbondantemente ed in modo vistoso la forza di intimidazione mafiosa». Ed è Alvaro, scrivono gli investigatori, a «non mollare mai la presa» sugli affari: quei bar sono cosa sua e gli amministratori nominati dal Tribunale se ne accorgono presto.
Il primo fiduciario nominato dall’amministratore giudiziario della Tortuga dura pochissimo: licenziato perché non si presenta mai al lavoro. Il secondo, Aldo Sandroni, resiste qualche tempo in più prima di venire licenziato perché sospettato di essere una pedina del clan. Per vederne un terzo si dovrà aspettare sei anni: «Dal momento dell’allontanamento del Sandroni – si legge nelle motivazioni – e per un lungo periodo, dal dicembre del 2010 al febbraio del 2016, la Tortuga srl e la ditta individuale di Palamara non avevano più avuto fiduciari».
Il motivo sempre il medesimo: «Risulta sostanzialmente impossibile gestire le attività a causa della costante presenza dei prossimi congiunti di Alvaro, circostanza che spiegava anche la loro inerzia e l’impossibilità che vi era stata di trovare, su Roma, un altro fiduciario». Una situazione così incancrenita che quando, nel 2016, il nuovo amministratore, Luca Picone, che in passato si era occupato della vicenda del Cafè de Paris, si accorge degli ammanchi di denaro dalle casse delle società licenziando il presunto autore, lo stesso Picone deve fare parziale marcia indietro ridimensionando l’accaduto perché, racconta ai pm «ho una moglie e due figli e voglio stare tranquillo vista la consapevolezza delle persone con le quali ero chiamato a trattare».