Il lungo tappeto arcobaleno: i colori della pace. Le bandiere di Libera. È Milano, la città di Umberto Mormile e di altre vittime innocenti della ’ndrangheta. Nella marcia, al corteo nazionale promosso dall’associazione di don Luigi Ciotti per il 21 marzo, primo giorno di primavera, e data in cui si rivive il ricordo dei caduti senza colpa alcuna per mano delle mafie, ci sono anche Martino e Anna, i genitori di Filippo Ceravolo, il diciannovenne assassinato nell’ottobre del 2012, tra Pizzoni e Vazzano, a causa di un errore commesso dal commando del clan Loielo entrato in azione contro gli Emanuele, nel contesto della faida delle Preserre vibonesi. Incontrano altri familiari, da Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, a Vincenzo Agostino, papà di Nino, il poliziotto assassinato a Villagrazia di Carini nel 1989, fino ai cari degli agenti assassinati nelle stragi di Capaci e via d’Amelio.

Martino e Anna sono tra i familiari che, pur già riconosciuti dallo Stato come vittime di mafia, attendono ancora giustizia. Rientrano tra le tante, troppe vittime, anche loro, per le quali – spiegano – «il tempo trascorre lento, inesorabile, nella consapevolezza che il bene più grande ci è stato strappato, mentre chi si è macchiato di questo crimine è ancora libero, libero di vivere nei suoi affetti e nella sua vita, ma anche libero di fare del male ancora». La memoria, però, serve. Servono iniziative come quelle promosse da Libera, a Milano e sui territori. «Perché così – spiegano i genitori di Filippo Ceravolo – il nostro dolore diventa condiviso, condiviso con l’opinione pubblica che, negli anni, è divenuta sempre più sensibile alla nostra causa. È stato importante il lavoro svolto da Libera, così come la testimonianza di quanti, vivendo il dolore hanno scelto di esternarlo, di raccontare le storie e le emozioni che si celano dietro vicende di cronaca che hanno segnato non solo famiglie e piccole comunità, ma un Paese intero».

Sono consapevoli, Martino Ceravolo e sua moglie Anna, che la solidarietà e la memoria collettiva sono importanti, ma tutto questo non basta. «Lo Stato deve fare di più per tutelare le vittime di mafia – dicono – non si tratta solo di rendere giustizia ai nostri cari ingiustamente caduti, ma di applicare leggi che spesso vengono disattese dalle pubbliche amministrazioni. Soprattutto in Calabria questo avviene da sempre, nonostante gli appelli e le promesse della classe dirigente e della burocrazia. Prima o poi, però, anche questo dovrà cambiare».