«Lo aveva adagiato su un relitto della barca. Lo ha visto spegnersi piano piano per ipotermia». Lo racconta Sergio Di Dato, coordinatore dell'equipe di Medici senza frontiere che opera nella centro per richiedenti asilo di Isola Capo Rizzuto, riportando la testimonianza di un ragazzo di 22 anni, sopravvissuto al naufragio avvenuto ieri davanti alla costa crotonese che ha visto morire il fratellino di 6 anni.

Parlando questo pomeriggio con i cronisti, Di Dato ha aggiunto che «ci sono alcuni minori che sono rimasti orfani, che dal loro arrivo sono seduti sul letto e non parlano. Tanti piangono, un modo per liberarsi del dramma vissuto».

Agli psicologi del team di Medici senza frontiere i superstiti hanno raccontato le fasi del naufragio: «Hanno detto che l'imbarcazione era in legno, un peschereccio molto precario e che quando si sono avvicinati alla costa hanno sentito una sorta di esplosione. Noi abbiamo controllato anche con i colleghi dell'ospedale se ci fossero ustionati, ma non ne abbiamo trovati. Si presuppone che il boato sia stato dovuto al collasso dell’imbarcazione».

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Attraverso il colloquio con i sopravvissuti e il confronto con le forze dell’ordine, Medici senza frontiere stima che sulla imbarcazione naufragata ci fossero 180 persone. Tra i sopravvissuto al Cara gran parte arrivano dall’Afghanistan, ci sono poi siriani, palestinesi, iraniani. Anche due somali. «Una cosa del genere, con così tanti morti – dice Di Dato - personalmente non l’avevo mai vista. Ho preso parte a diversi soccorsi con salme in mare però qualcosa di simile era impensabile».