«Quando si entrava e si entra nelle stanze dei pazienti, perché tutt’ora succede, loro guardano solo i nostri occhi, non vedono altro. Questo è il modo di comunicare. E io penso che non dimenticherò mai nessuno sguardo che ho incontrato».

Sono gli sguardi che ha incontrato in questi mesi in corsia l’immagine che le è rimasta più impressa nella mente. Anna Rotella è infermiera da quasi 20 anni, dal 2003, del reparto di malattie infettive del policlinico universitario Mater Domini di Catanzaro, diretto dal professore Carlo Torti.

Gli occhi dei pazienti

Da marzo, insieme ai suoi colleghi, si è presa cura di tanti pazienti affetti da Covid-19 e tanti ne ha visti lasciare questa vita per colpa di un nemico invisibile. «Purtroppo questa è una specie di sensazione fallimento - racconta Anna - perché davanti a certe cose non possiamo fare niente. Lo sguardo dei pazienti prima che possa succedere il peggio è di smarrimento, ti penetra dentro e ti brucia il cuore. Poi quando raccogliamo i loro panni, i preziosi, le cose intime che avevano per restituirle ai familiari è terribile. Queste sono cose che non scorderemo».

La paura 

Anche Anna, come tutti i suoi colleghi, già dalla prima ondata ha dovuto sacrificare i suoi affetti più cari, allontanandosi per mesi dalla famiglia e oggi, nel momento in cui la campagna vaccinale entra nel vivo, continua a fare con grande responsabilità il suo lavoro e accanto a un sentimento di enorme fiducia non nasconde di aver avuto anche tanta paura.

«Ne ho avuta e continuo ad averne - dice -. Adesso ho molta paura per me ma soprattutto per i ragazzi che lavorano con me perché gli infermieri, gli oss sono tutti molto giovani, io sono la più anziana. Per cui è come se io avessi la responsabilità anche del loro stato di salute».

L'affetto dei colleghi

Quella di Anna è una storia come tante, una testimonianza carica di emozioni di chi ha vissuto in prima linea il dramma di una situazione inaspettata della quale restano anche dei risvolti positivi: il legame che si è creato con i colleghi e i messaggi di incoraggiamento che hanno aiutato a non mollare: «All’inizio eravamo tutti spaesati, essendo partiti da zero. Così come è successo in tutta Italia, avevamo tutti gli stessi timori, avevamo paura di tornare a casa dai nostri cari perché c’era il rischio di infettarli. Abbiamo avuto un momento di crisi interiore ma siamo stati capaci di ritrovarci quasi come una famiglia mentre fuori il mondo si era fermato».