VIDEO | In fuga dalla Dalmazia e dall'Istria dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, nella Città dello Stretto hanno messo nuove radici e da anni sono testimoni della storia
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«Ci siamo accorti di essere odiati, improvvisamente da un giorno all'altro. Un odio che ancora oggi non mi spiego. Non so se le parole possono spiegare, ma spero che possano. Tito aveva il progetto di riunire tutta la Jugoslavia e le popolazioni slave. Ma in Dalmazia, per esempio, la prevalenza della popolazione era, come noi, di discendenza italiana e non disposta a rinnegarlo».
Passa il tempo ma resta immutata la commozione che coglie Giovanni Carlini quanto racconta l'esilio dalla Dalmazia e i duri anni che la precedettero. Quando ricorda le ingiustizie subite così a lungo per avere scelto di non rinnegare la sua italianità anche dinnanzi alla violenza dei partigiani comunisti di Tito.
Orgogliosamente italiano ed esule dalmata, Giovanni Carlini, ormai da oltre sessant'anni residente a Reggio Calabria, racconta gli anni difficili della persecuzione iniziata già prima della fine della seconda Guerra mondiale. Una persecuzione culminata nell'esilio alla ricerca di libertà.
L'isola dalmata in cui è nato nel 1936 si chiama Lagosta, comune della provincia di Zara fino al 1941 e della provincia di Spalato del Governatorato di Dalmazia fino al 1943, poi passato in mano ai partigiani di Tito. «Un'isola bellissima e particolare perché al suo interno ci sono il mare e altre isole. Chiunque la scopra se ne innamora. Essere costretto a lasciarla all'età di 14 anni è stato doloroso», così la descrive, ricordandola bene come se il tempo non fosse trascorso.
«Abbiamo vissuto lunghi anni di stenti e di terrore. La nostra colpa: essere italiani. Il nostro orgoglio di esserlo ci ha condannati all'esilio», racconta ancora.
Nazionalismo e pulizia etnica
Orrore e morte in quel tormentato litorale adriatico. Silenziosamente si consumava un massacro, a lungo taciuto, che ebbe i contorni netti e drammatici di una pulizia etnica per mano dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, spinta da chiare mire espansionistiche di stampo comunista. Cancellati gli esseri umani sull'altare del peggiore dei nazionalismi che innescò un inferno scandito da persecuzioni, annegamenti, deportazioni, omicidi di massa. L’immagine più drammatica di questo brutale accanimento furono proprio le foibe.
I plotoni di esecuzione e le foibe
«Solo dopo l'arrivo in Italia, nel 1949, seppi delle foibe e delle uccisioni di massa che tra il 1943 e il 1945 si erano consumate in quelle fosse scavate nel Carso», racconta commosso Giovanni Carlini. Negli infernali inghiottitoi scavati nella regione comune ad Italia, Slovenia e Croazia, e in altre gole in territorio istriano, erano stati gettati migliaia di militari e civili italiani (secondo alcune fonti 5000 secondo altre 11000). Tra loro anche numerosi calabresi. Mentre nelle foibe si uccideva nella sua Dalmazia, Giovanni Carlini e la sua famiglia avevano conosciuto la persecuzione, il terrore della fucilazione davanti ai plotoni di esecuzioni e dei lavori forzati e la privazione di ogni libertà.
La fame e l’esilio
«Dopo la fine della guerra Tito avanzava e rivendicava i diritti sulla terra e sulle persone che ci vivevano. Mio padre Michele, finanziere, fu costretto ad andare a combattere al fianco i titini contro i tedeschi. Per cinque anni non abbiamo avuto più sue notizie. Io ero rimasto con mia madre Mila, mia sorella Anita e altri due fratelli Claudio e Antonio, molto malato. Ero io il capofamiglia. Non potrò mai dimenticare la fame che abbiamo patito. Mio fratello più piccolo, nato nel 1940 aveva dimenticato persino il pane.
Dopo la guerra, mio padre tornò a casa provato ma determinato a tornare in Italia perché era italiano e mai lo avrebbe rinnegato. Così clandestinamente andò avanti e arrivò a Fiume. Nel 1949, al momento di dover scegliere di quale nazionalità essere, pena l'esilio, scegliemmo l'Italia e lo raggiungemmo. Intanto già eravamo stati costretti a vivere nei boschi e a lasciare la nostra casa, poi saccheggiata. Poi, lasciando l'isola, lasciammo tutto. Mentre attraversavamo il confine mia madre, da sola con quattro figli, aveva paura che ci fermassero e che non riuscissimo a raggiungere l'Italia. Ci riuscimmo e lì iniziò la nostra nuova vita. Da guardia forestale arrivai a Reggio nel 1963 e qui ritrovai il mare bello come quello della mia isola Lagosta. Ma non potrò mai dimenticare», racconta commosso Giovanni Carlini.
«Noi non serbiamo odio nei confronti di nessuno. Resta per noi sacro l'amore per la patria che mio padre e poi tutti noi abbiamo sempre difeso. Non bisogna odiare ma capire e aiutare chi ha bisogno. Le guerre sono un disastro e non si dimenticano. Mi rivedo nelle persone sfollate in Ucraine. Anche noi lo eravamo nei boschi. Anche io ho conosciuto i bombardamenti, quando eravamo sotto attacco dei tedeschi. Neanche quello si dimentica».
Il giorno del Ricordo
Nel giorno del ricordo delle vittime delle foibe, istituito con legge in Italia nel 2004, oggi 10 febbraio (nel 1947 in questa data fu firmato a Parigi anche il Trattato di Pace che definì i confini di quelle terre tra Italia e Jugoslavia), con molto ritardo si recupera la memoria di una tragedia a lungo dimenticata e addirittura negata. La si salva da un oblio in cui è rimasta avvolta per oltre sessant'anni. Si tenta di ricucire uno strappo che ancora sanguina.
Raccontare per non dimenticare ancora
Le testimonianze di Giovanni Carlini, quella di Lidia Muggia, esule istriana anche lei a Reggio da tanto tempo, e degli altri sopravvissuti ancora vivi per raccontarlo, sono sempre molto preziose. Per questo, fino a quando è stato possibile, Giovanni Carlini e Lidia Muggia sono stati sempre disponibili a raccontare la loro storia, anche nelle scuole, e a collaborare con il Comitato 10 febbraio di Reggio Calabria. Tutto affinché questa storia non fosse conosciuta e mai più dimenticata.
Lidia Muggia: «Il mio esilio dall’Istria perché italiana»
«Quando vedo i profughi ucraini, mi rivedo bambina perché la storia è sempre la stessa. Loro scappano dai russi come noi scappavano dai titini». Le guerre non sono finite e ancora tanti popoli non vivono in pace.
Lidia Muggia, nata a Canfanaro in Istria nel 1938, fuggita a Trieste nel 1946 e da oltre 50 anni a Reggio Calabria, era soltanto una bambina quando conobbe la persecuzione per il solo fatto di essere italiana. Soltanto una bambina. Eppure non ha dimenticato la paura e il terrore che hanno segnato la sua infanzia coincisa con la lotta partigiana condotta dal maresciallo Tito per riunire i paesi slavi come l’Istria, italiana ma controllata militarmente dai tedeschi. Una lotta che alla fine della Seconda Guerra mondiale degenerò nell’orrore delle uccisioni di massa degli italiani ritenuti tutti fascisti e gettati nelle fosse carsiche note come foibe.
Da una parte i tedeschi e dall’altra i titini
«Eravamo costantemente sorvegliati e circondati: da una parte i titini e dall’altra i tedeschi. Passammo momenti di terrore paura di essere fucilati perché italiani nella terra dove io e i miei fratelli eravamo nati e dove improvvisamente tutto ci era ostile. Non dimenticherò mai i fucili puntati e le urla quella notte - racconta ancora Lidia Muggia - in cui esplose il treno vicino al casello ferroviario accanto al passaggio a livello della linea Campo Marzio di Trieste - Pola. Era una zona presieduta dalle truppe naziste e in quel casello lavorava mia madre e noi tutti vivevamo. Per quell'esplosione mia madre, di origini italiane, fu accusata di complicità dai tedeschi e portata via da noi. Io ero solo una bambina, avevo solo sei anni. Non dimenticherò quei lunghi giorni in cui la chiamavo senza che lei potesse rispondermi. Poi un giorno la vidi ritornare da noi», racconta ancora Lidia Muggia.
La madre Elvira, di origini piemontesi, donna di grande coraggio e rimasta vedova giovanissima, fu a lungo interrogata dai tedeschi prima di poter tornare dai figli. Dopo quanto era accaduto non restava che la fuga. La destinazione fu l’Italia, dove l’esistenza non fu subito facile ma dove, nonostante l’esilio e le radici altrove, presto fu possibile sentirsi in patria, finalmente in pace.
La memoria che resiste
«Oggi, poter parlare dei fatti che hanno caratterizzato i miei primi anni di vita, mi fa comprendere sempre di più come ciò sia necessario utile per conoscere tratti importanti della nostra storia. Per conoscere l’odio di cui l’essere umano è stato capace e per impegnarsi costantemente per debellarlo. È una storia che non può essere disconosciuta e mistificata. Il Comitato 10 febbraio negli anni si è impegnato in una rivoluzione culturale scandita dalla raccolta di sussulti e voci di quel pezzo di Italia che non c'è più ma che resiste vivo nella memoria di noi sopravvissuti», conclude Lidia Muggia.