Nel novembre 1995, il meccanico di Locri raccontò quanto aveva visto ai carabinieri. Fu trucidato. La famiglia attende ancora giustizia. Il ricordo del figlio: «Vennero a prendermi a scuola. Poi tutto cambiò. Il boss Cordì seppe quasi subito della testimonianza di mio padre»
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«Il gesto di mio padre fu per lui normale. Ma, al contempo, rivoluzionario. E lo pagò con la vita. Ancora oggi, tuttavia, non abbiamo avuto giustizia». Giuseppe Correale aveva poco più di 9 anni il 22 novembre del 1995 quando, suo padre Fortunato, venne trucidato con sette colpi di pistola mentre si trovava nella sua autofficina di Locri. Fortunato, il meccanico, ebbe una sola colpa: rompere quel muro impenetrabile di omertà che pervadeva la Locride in un’epoca nella quale il silenzio era l’unica legge unanimemente riconosciuta. E chi si azzardava a violarla doveva fare i conti con la giustizia dei mafiosi. Quella senza regole né onore, che sapeva sentenziare solo con il sordo rumore delle armi.
Fortunato Correale non volle sottostare a quell’imposizione omertosa e così raccontò di aver visto un’auto allontanarsi dal luogo in cui era stata data alle fiamme l’auto di un carabiniere. Era lì, proprio di fronte alla sua officina.
Giuseppe, quel 22 novembre di 28 anni fa cambiò per sempre la sua vita. Che ricordo ha?
«Mi trovavo a scuola. Stavamo facendo le prove per una recita. Venne a prendermi un amico di famiglia. Sapevo mio padre stesse lavorando. Quest’amico era un carabiniere, spesso si trovava a casa nostra con la moglie. Quando arrivai vicino casa vidi che c’era un finimondo, forze dell’ordine ovunque. Però non ci dissero subito la verità. Certo, capimmo che qualcosa non andava. Quell’amico ci portò a casa sua e, pian piano, iniziò a raccontarci quanto era accaduto».
La rivoluzione della normalità. Potrebbe essere definita così la scelta di suo padre di denunciare gli autori di quegli atti incendiari?
«Sì, ha detto bene. Proprio una rivoluzione della normalità. E chi ha compiuto quel gesto criminoso ha voluto punire il suo atto di coraggio. Attenzione, mio padre non fece nomi e cognomi semplicemente perché non vide chi erano quei soggetti che avevano appiccato il fuoco all’autovettura del carabiniere. Lui riferì solo di aver visto un certo tipo di auto che si allontanava dopo che era stata data alle fiamme quella parcheggiata davanti alla nostra officina».
Quindi fu tutto una pura casualità?
«Non proprio. Mio padre aveva delle auto d’epoca che venivano prese a noleggio per le cerimonie. Il carabiniere al quale bruciarono l’auto si sarebbe dovuto sposare e, per questo, aveva lasciato l’auto davanti casa nostra, perché avrebbe poi utilizzato la vettura d’epoca noleggiata».
Perché quell’auto fu incendiata? Lo ha mai saputo?
«La ragazza che quel carabiniere doveva sposare era “contesa”. Su di lei c’era l’interesse di un soggetto in odore di mafia. Quel militare sapeva chi fosse l’uomo interessato alla sua donna».
La ‘Ndrangheta volle tappare la bocca a suo padre. Non si doveva arrivare ad accuse precise. È così?
«Coloro che hanno portato a termine l’azione criminosa volevano far passare il messaggio che in quei luoghi bisognava stare zitti, non si doveva dire nulla. Pensi che mio padre non aveva dato neppure la targa di quell’auto, aveva solo riferito di averla vista andare via. Gli stessi investigatori sapevano dove ricercare il colpevole dell’omicidio. Infatti, poco tempo dopo, andarono a fare delle perquisizioni mirate e trovarono qualcosa di molto interessante».
A cosa si riferisce?
«Nell’appartamento di un boss c’era il verbale con le dichiarazioni che mio padre aveva rilasciato qualche mese prima ai carabinieri. Ancora non sappiamo come sia stato possibile che quel verbale fosse nelle mani del boss locale. Anche perché non parliamo di un semplice soldato. Quell’uomo, all’epoca, era il capo indiscusso della cosca Cordì».
Tuttavia, nonostante indagini serrate, l’assassinio di suo padre è ancora senza colpevoli.
«Sì, è così. Ci sono stati degli indagati, degli arresti, dei processi. Ma tutto si è concluso con un nulla di fatto. Ancora oggi, a distanza di 28 anni, attendiamo una verità giudiziaria. Perché noi la verità storica la conosciamo, le carte processuali erano palesi sull’origine dell’omicidio di mio padre».
Le indagini esclusero immediatamente qualsiasi coinvolgimento sia con la criminalità organizzata che con altri possibili affari illeciti. Questa è storia confermata dalle cronache dell’epoca.
«Esatto. Lui, del resto, aveva una vita più che specchiata: solo famiglia, lavoro, officina, camion, cerimonie e la sua amata campagna. Nient’altro».
La scelta di suo padre scatenò la paura che potesse diventare un esempio?
«Sa com’è? A quel tempo, se qualcuno avesse parlato senza per questo subire ritorsioni, la gente avrebbe compreso che raccontare la verità era possibile anche in un territorio come la Locride. Mentre, per gli ‘ndranghetisti, tutti dovevano stare in silenzio».
Giuseppe bambino e Giuseppe adulto. La crescita e la maturazione portano sempre a vedere le storie attraverso lenti diverse che consentono di cogliere sfumature prima difficili da scorgere. Com’è cambiato il rapporto con la tragedia che ha segnato la sua vita, in questo arco temporale lungo quasi 30 anni?
«Non si comprende tutto subito. Accade quel che non ti aspetti, come un fulmine a ciel sereno. Fai fatica a capire, non ti spieghi. Poi, pian piano, ti confronti con le esperienze della vita ed inizi a capire la scelta. Sa, oggi io odio soprattutto le persone codarde. E le assicuro che, se fossi stato al posto di mio padre, avrei fatto la stessa identica cosa».
Quanto vale l’eredità morale che le ha trasmesso suo padre?
«Sono valori che tutti dovrebbero possedere. A prescindere dal ruolo di ciascuno nella società. Non si può pensare di vivere piegandosi al volere dei mafiosi e andare avanti senza denunciare i soprusi».
Il 23 maggio è l’anniversario della strage di Capaci. Ma è anche la giornata nazionale della legalità. Trova che vi sia lo stesso coinvolgimento emotivo, la stessa passione di qualche anno fa?
«Un po’ si è affievolito quello spirito che ha animato i decenni scorsi. Credo che ciò dipenda anche dal fatto che le mafie hanno compreso che bisogna evitare di compiere atti criminosi eclatanti. Si agisce diversamente, in silenzio e senza gesti che facciano rumore o che possano turbare l’opinione pubblica. Del resto, ciò che conta è il consenso».
La Locride è rimasta la stessa in questi 30 anni?
«No, è cambiata. Sono felice di questo, perché significa che il sacrificio di mio padre e degli altri che sono morti per mano della ‘Ndrangheta non è stato vano. Oggi c’è un’opinione pubblica più attenta, aperta. Negli ultimi anni è più facile trovare il coraggio di denunciare».
Lei è ottimista.
Forse sì. Ma mi rendo anche conto che si sta facendo di tutto per diminuire l’attenzione sulla piaga mafiosa. Però questa rimane sempre una malattia. È come quando, pur in presenza del Covid, bisogna continuare ad occuparsi dei tumori. E la ‘Ndrangheta è un tumore a tutti gli effetti. Non si può pensare che possa passare in secondo piano».
Ma questa vittoria passa anche dalla società civile. È sicuro che la si voglia sconfiggere questa mafia?
«La maggior parte della gente sta dalla parte sana della società. Ne sono convinto. C’è una parte minoritaria che ancora appoggia la mafia. È vero: c’è paura di manifestare pubblicamente il proprio dissenso e si finisce con l’essere silenziosi, ma io lo avverto cosa accade quando ci sono operazioni antimafia ed è qualcosa di veramente positivo».
È l’ottimismo di cui si diceva prima.
«Non è solo ottimismo. La gente perbene, in questi casi, avverte quel senso di liberazione dall’oppressione mafiosa. È la stessa libertà che ha desiderato mio padre quando ha deciso di raccontare la verità. Quella per cui vale la pena vivere e addirittura morire. Quella stessa per la quale, oggi, continuo a battermi».
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