Cresce e non si arresta il numero dei femminicidi in Italia: il brutale assassinio di Giulia Cecchettin ha smosso le coscienze di politica e opinione pubblica. Sul tema, Cataldo Calabretta, avvocato e docente universitario, esperto di cronaca nera e giudiziaria, ha scritto a quattro mani con Vittoriana Abate, giornalista di Porta a Porta, il saggio “Il ragionevole sospetto”, dubbi e misteri nei casi più controversi della cronaca nera italiana e “Sulla pelle e nel cuore” (Graus Editore), un libro interamente dedicato alla piaga dei femminicidi. 

«Sono ancora troppi i casi nei quali uomini evidentemente violenti non sono allontanati – spiega Calabretta -. Il divieto di avvicinamento o l’obbligo di residenza per gli uomini violenti, così come il braccialetto elettronico, sono strumenti potenzialmente efficaci se utilizzati in maniera corretta. Già il Codice rosso (l’insieme di misure di difesa e prevenzione approvate nel 2019) ha reso reato la violazione di queste misure. È indispensabile riconoscere la pericolosità di questi uomini. Gelosia, ferite narcisistiche che non si rimarginano, desiderio di prevaricazione prima e di vendetta dopo la fine di una relazione rendono l’idea di quello che scatta nelle menti di alcuni uomini. Difficile attribuire ad un raptus di follia improvvisa la causa dell’omicidio della donna, nella maggior parte dei casi l’omicidio è l’ultima, inqualificabile, azione di un disegno criminale. Quello che accomuna le tragiche storie di femminicidio è proprio l’iter criminoso: la donna che soccombe in un vortice malsano di violenza, in cui viene trascinata. Uccisa da chi dovrebbe rappresentare per lei un sostegno, una protezione». 

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Insomma, i segnali d’allarme, anche quelli più piccoli, non vanno ignorati. Ne è convinto Calabretta, che ritiene fondamentale non sottovalutarli: «La teoria del raptus omicida è fallace in questa particolare fattispecie; perché prima di uccidere la propria partner o ex partner passa del tempo in cui la violenza si manifesta con atteggiamenti spesso inequivocabili. Che preludono, purtroppo, in tantissimi casi al dramma finale.  Il fenomeno, tuttavia, è trasversale, non ha etnia, non si consuma in ceti sociali e culturali specifici, non ha margini di classificazione legati all’età di chi commette l’omicidio. L’elemento scatenante c’è: l’uomo non accetta che una donna, quella che considerano “la propria donna”, sia libera». Cruciale dunque la prevenzione che deve diventare «la parola d’ordine, con Stato, famiglia e scuola che devono intervenire in maniera incisiva». 

Riconoscere in tempo i segnali di una relazione che da tossica che può diventare mortale, può salvare la vita. «Serve una maggiore formazione per tutte le categorie interessate – continua Calabretta -, dai magistrati alle forze di polizia ma anche per giornalisti, avvocati, assistenti sociali. Ricordo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ammonito l’Italia perché giudici e inquirenti troppo spesso valutano male o non valutano il rischio».

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L’assassinio di Giulia Cecchettin ha scosso il Paese e sta alimentando un dibattito serrato sulla sopravvivenza di una cultura patriarcale di fondo come causa del fenomeno. «Germania e Olanda sul campo dei diritti e della parità di genere sono tra i Paesi capofila. Eppure – conclude Calabretta - proprio lì i casi di femminicidio sono tantissimi. Aumentare il senso di colpevolezza degli uomini non servirà a risolvere il problema. Ma i maschi non possono nemmeno far finta di nulla. Ribadisco: famiglia e genitori possono fare tantissimo».