Le prime denunce a 12 anni e l’infanzia nei vicoli del centro storico di Cosenza. La scalata alla malavita bruzia dopo l’operazione Garden e le estorsioni “ripagate” con le casse di champagne. L’arresto a Rende e i mille e più segreti portati nella tomba
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Lo chiamavano il “Due Novembre” per la sua scarsa propensione al sorriso associata a lampi gelidi di occhi azzurri. Un soprannome da brividi che la polizia utilizza nelle prime informative a lui dedicate, ma di cui Ettore Lanzino si sbarazzerà presto. Un più rassicurante “Ettaruzzu” scandirà, infatti, i suoi anni più ruggenti. Fino alla fine dei suoi giorni. Ecco chi era il boss cosentino deceduto oggi all’età di 69 anni.
I fiori del male
La sua storia è quella di un predestinato al crimine. Ha solo dodici anni quando in combutta con altri coetanei, si guadagna le prime denunce per piccoli furti. È il suo apprendistato. Originario di Luzzi, cresce nel centro storico di Cosenza, in una vinella – via Timpone – culla della futura malavita cittadina. Si lega ai fratelli Aldo e Santo Curcio, ben agganciati con la ‘ndrangheta reggina dell’epoca. È grazie a loro che entra per la prima volta in contatto con quel mondo oscuro. Il suo capobanda, però, è Antonio Sena, che a un certo punto uccide Aldo e costringe l’altro all’esilio. Lo fa per consolidare una leadership che riteneva a rischio, ma così finisce per perdere la stima dei suoi soldati. Compresa quella di Ettaruzzu. È in quel momento che Lanzino consolida i rapporti con un altro giovane gangster di qualche anno più anziano. Si chiama Franco Pino.
Insieme a lui mette a segno una spettacolare rapina al treno nella vecchia stazione di Casali. È il 1978, anno ruggente, il primo della guerra di mafia. Luigi Palermo alias “U zorro” è morto da pochi mesi, e Pino guida il gruppo degli scissionisti nello scontro fratricida con gli eredi del vecchio padrino. I ragazzi di via Timpone si ritrovano l’un contro l’altro armati. Ed “Ettaruzzo” diventa uno dei suoi uomini di maggior fiducia.
’Ndrangheta | È morto Ettore Lanzino: lo storico boss di Cosenza era malato da tempo. Si trovava in carcere dal 2012
Tributo di sangue
Il suo regno diventa Piazza Riforma. È quella la zona che gli assegna il capo per praticare le estorsioni ai commercianti. A quei tempi, la chiamano ancora «protezione». Lascia il segno anche nella guerra in corso. Il suo è un contributo di sangue. Nel 1980, un proiettile gli trapassa un braccio mentre è in auto con Umile Arturi. Due anni dopo, è tra i feriti della sparatoria in carcere a firma Edgardo Greco. Contributo e tributo: nel 1981 gli uccidono il suocero, sfortunato passante sulla linea del fuoco, e l’anno successivo cade suo fratello Mario.
L’operazione “Garden” non fa sconti. Nel 1993, trascina tutti in carcere. Lui compreso. Incassa la condanna per associazione mafiosa, ma è tra i primi, nel ’98, a mettere un piede fuori dal carcere. Nel vuoto delinquenziale dell’epoca, è l’uomo giusto al posto giusto. Nel momento più giusto: quello della rifondazione. C’è il suo nome, oltre a quello di Domenico Cicero, nella ragione sociale del nuovo clan di ‘ndrangheta destinato a scandire crimini e lutti del nuovo millennio. Non ha esperienze da boss, ma comandare gli viene quasi naturale.
Pace e champagne
È uomo di pace. Pino gli ha insegnato che per durare, la faccia feroce non serve. Impara a sorridere anche. Gli atteggiamenti non sono da gangster, ma da uomo d’affari. All’imprenditore che a Natale va a fargli gli auguri, regala una cassa di champagne della migliore marca. Pochi giorni prima si è fatto consegnare da lui trenta milioni di lire, ma tant’è: «Non sembrava neanche un’estorsione» affermerà in seguito il diretto interessato.
Irretisce le vittime, ma anche i potenziali avversari. Franco Bevilacqua, capobastone dei nomadi, arriverà a preferire la sua amicizia a quella dei consanguinei cassanesi. A chi ha ancora la guerra in testa, predica pazienza. Non dà ordini, né consigli, gli basta sbandierare il proprio esempio: «Mi hanno ammazzato un fratello, arriverà il tempo di vendicarsi». Mantiene equilibri e alleanze nel contesto turbolento delle bande cosentine, ma la terza guerra di mafia gli rotola tra i piedi.
Giuseppe Ruffolo punito con la morte per uno sgarro al clan Lanzino-Patitucci
Fate gli affari e non la guerra
Lanzino è contrario. Sa che gli omicidi portano guai, teme di trovarsi addosso le forze dell’ordine. Prova in tutti i modi a impedire l’uccisione di Franco Bruni “Bella bella”, ma non ci riesce. «Era incazzato nero» ricorderà in seguito un Bevilacqua già pentito. E così li convoca tutti a casa, zingari e italiani, per ammonirli a modo suo: «Da ora in poi, ognuno si assume le sue responsabilità». Sarà buon profeta.
Di lì a poco, infatti, l’offensiva giudiziaria che si abbatte su Cosenza sarà delle più imponenti, con una media di un blitz ogni sei mesi. E che si chiami “Squarcio” piuttosto che “Luce”, “Tamburo” invece di “Twister”, e ancora “Missing” o la saga di “Terminator” articolata in ben quattro capitoli, poco importa: tra gli arrestati c’è sempre lui, Ettaruzzo. Dribbla le condanne per vecchi omicidi degli anni Ottanta e Novanta e si gode scampoli di libertà tra una carcerazione e l’altra. Poi, il 10 settembre del 2008, all’ennesima ordinanza che gli piove addosso, si rende invisibile.
Entra De Napoli, esce Vinazzani
La sua latitanza, protrattasi per quattro anni, è a tutt’oggi uno dei capitoli più controversi della cronaca giudiziaria locale. Il boss sembra imprendibile, tant’è che dopo ventiquattro mesi di ricerche infruttuose, l’allora vice della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, sbotta e se la prende con gli investigatori. Con una metafora pallonara, li paragona a Vinazzani (Claudio), onesto mediano del Napoli prescudettato, e dice che per acciuffare Lanzino ci vorrebbe un De Napoli (Fernando), uno dai piedi più raffinati. Le sostituzioni in corsa produrranno l’effetto auspicato: il 16 novembre del 2012, i carabinieri lo arrestano in un residence di via Adige, a Roges, mentre è intento a prepararsi la cena.
Dopo la sua cattura, un riflettore sgradevole su Rende si accende su Rende, indicata come buen ritiro dei latitanti, ma intercettato durante un colloquio carcerario, il diretto interessato minimizzerà: «Mi avrebbero preso anche a Milano». Sentiva che il suo tempo era arrivato. Da dietro le sbarre diventa insolitamente loquace. Alla prima occasione utile, spiega di essersi dato alla macchia «perché non voleva tornare al 41 bis». Si difende dalle accuse, sostiene che «i pentiti si sono inventati tutto». E annuncia querele per calunnia contro il suo ex contabile Vincenzo Dedato e il picciotto Angelo Colosso.
La caduta
Il suo tempo, però, è finito per davvero. I processi, ritardati dalla sua diserzione, corrono veloci e si traducono in ergastoli: per l’omicidio Bruni, per quello di Vittorio Marchio e per Marcello Calvano. Le condanne lo risucchiano nelle segrete del carcere duro e pongono fine alla parabola oscura di uno dei boss più influenti e pericolosi di tutti i tempi. Con lui ormai fuori gioco, le carte a Cosenza si rimescolano. Nuovi aspiranti capi si propongono sulla scena, ma con una certezza: che il passato non ritorna.
Porta con sé nella tomba mille e più segreti. La riservatezza era, infatti, la sua dote criminale migliore. Che si parlasse di un nascondiglio di armi, di un deposito della droga, dei dettagli di un omicidio, il discorso non cambiava. Per dirla con Franco Pino: «Se a saperlo era solo Lanzino, allora eravamo tranquilli». Dei suoi quattro figli, nessuno ha scelto di seguire le orme del padre, una scelta probabilmente condivisa dallo stesso genitore. Non lasciare eredi: a conti fatti, è questa la sua eredità da boss. La migliore. Se n’è andato in un giorno qualunque. Un giorno di marzo, freddo e piovoso. Che somiglia tanto a novembre.