All’altro capo del telefono la voce giunge flebile e incerta. Francesco è entrato in pronto soccorso all’Annunziata, nel pomeriggio del giorno di Pasquetta, poco prima delle 17. Il nome è di fantasia. Nulla da nascondere, ma non vuole allarmare parenti ed amici ancora ignari delle sue condizioni di salute.

Sintomi da ricovero

Dopo aver scoperto di essere positivo per qualche giorno è rimasto a casa. Poi un medico dell’Usca in visita domiciliare, ha percepito un peggioramento della situazione, e ne ha disposto il trasferimento in ospedale. Aveva ragione. Nel giro di poche ore la saturazione è scesa sotto i 90. Poi è salita la febbre alta ed è sopraggiunta la temuta polmonite bilaterale, con annesse difficoltà respiratorie.

Quadro clinico severo

Il quadro clinico appare dunque severo. «Sono disperatamente attaccato alla bombola dell’ossigeno. Dovevo andare in bagno ed ho staccato la mascherina. Dopo pochi passi ho avuto un tracollo respiratorio, mi sono sentito soffocare. Con tutte le mie forze sono tornato indietro aggrappandomi all’apparecchio. Nessuno mi ha aiutato, non me la sento però di condannare il personale sanitario. In queste condizioni è impossibile prestare assistenza: siamo in tanti, sistemati alla meno peggio e tutti bisognevoli di monitoraggio costante. Ma le tende ed il pronto soccorso non sono ambienti adatti per garantire al meglio questo tipo di prestazioni».

Alla ricerca di un posto letto

Francesco ha 53 anni, mai fumato in vita sua. Fisico da atleta e nessuna patologia pregressa. «Nemmeno un mal di testa – dice – Mi stanno cercando una collocazione. Prima a Rossano, poi a Cetraro, infine a Catanzaro e persino a Reggio Calabria. Nulla da fare. Non ci sono posti disponibili. Forse stamattina alcuni pazienti meno gravi saranno dimessi dalla pneumologia o dal reparto di malattie infettive. E potrebbe aprirsi uno spiraglio. Ma in questa condizione, un posto potrebbe rendersi disponibile anche per un evento diverso. Meglio non pensarci».

La paura di non farcela

La verità nuda e cruda è che se non guariscono, i pazienti muoiono. Ed il decesso consente di liberare un letto. Soltanto dopo molte ore di sofferenza è riuscito ad avere una tachipirina: «Ho paura. Sento che le mie condizioni stanno peggiorando. Non sono mai stato così male in vita mia». Il dramma di Francesco, residente in un comune dell’area urbana, una moglie e un figlio a casa in quarantena ed in grave apprensione, è simile a quello vissuto dagli altri pazienti e dai loro familiari.

Telefono muto

Non tutti riescono a mantenere il contatto con l’esterno. Quando si aggravano, i malati Covid smettono di rispondere al telefono o di ricaricare la batteria dello smartphone. E allora inizia una disperata ricerca di notizie, attraverso telefonate ai numeri fissi dell’ospedale. Alle quali spesso nessuno risponde. Ed anche quando qualcuno risponde, non sempre è in grado di fornire informazioni. Ci provano allora gli addetti alla vigilanza a supportare i familiari, con un tam tam fatto di generosità e compassione. Si prestano anche a consegnare vestiti puliti di ricambio, alimenti ed altri generi di conforto consegnati alla guardiola dai parenti. Che pregano affinché l’incubo possa finire al più presto.