Quello di Giulio Castiglia è un nome che sembrava ormai destinato all’oblio delle cronache, ma che nelle ultime ore si è riaffacciato, suo malgrado, sulle scene giudiziarie. Tra gli indagati dell’operazione “Recovery”, infatti, c’è anche l’ex esponente del vecchio clan Perna-Pranno di Cosenza, oggi settantatreenne e già volto noto della vecchia malavita cosentina, al quale la Dda contesta la detenzione illecita di un’arma con l’aggravante della finalità mafiosa. Per lui è decisamente un brutto affare.

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Da circa tre anni, infatti, Giulio detto “Tonino” era tornato in circolazione, lasciando in anticipo una cella, in quel di Padova, a cui sembrava ormai destinato per il resto della sua vita. L’uomo, infatti, ha sul groppone una condanna all’ergastolo, incassata in via definitiva nel 2011, per un omicidio della prima guerra di mafia a cui ha preso parte anche lui, quello dell’allora diciottenne Angelo Cello consumato a luglio del 1981. Dopo una quindicina d’anni trascorsi dietro le sbarre, però, il Tribunale di sorveglianza gli aveva concesso la semilibertà in virtù della sua condotta da detenuto modello e anche della distanza di tempo siderale che lo separa dai crimini che ha commesso. Per lui, dunque, nel 2021 comincia in modo inatteso una nuova vita: il ritorno a Cosenza, un lavoro in pescheria e poi in carcere, sì, ma solo per dormire. Unica avvertenza: non farsi vedere in giro con altri pregiudicati e, soprattutto, stare lontano dai guai. A volte, però, non basta.

Il coinvolgimento di Castiglia scaturisce da una lite che, il 2 ottobre del 2023, coinvolge suo figlio William. Il ragazzo ha una discussione con alcuni coetanei di etnia rom davanti a un locale di Rende. Quelli non la prendono bene e gliele danno di santa ragione. Non contenti, gli sottraggono pure l’automobile e la portano, come trofeo di guerra, nel villaggio di via degli Stadi.

Dopo qualche ora, sua sorella Luisiana si reca da sola nel fortino degli zingari per andare a recuperare il veicolo. Virtualmente, di fianco a lei, c’è anche il suo compagno Gianfranco Sganga. È lui, infatti, che la donna contatta non appena si ritrova al cospetto degli aggressori del fratello. Poi passa il cellulare al leader del gruppo per consentire una discussione tra uomini. L’esordio è ossequioso - «Gianfancù, finalmente ci conosciamo di persona» - ma riguardo a William Castiglia, l’interlocutore non ammette vie di mezzo: «Deve venire qua, deve venire lui, Gianfrà, perché ha sbagliato di grosso con mio fratello».

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Quella sera, infatti, il litigio sarebbe nato per un tavolino all’aperto già occupato dai ragazzi rom e che il figlio di Giulio pretendeva invece per sé. A far degenerare il tutto, però, sarebbero state le offese e le minacce rivolte al fratello dell’uomo che ora parla con Sganga. «Gli ha detto che lo ammazzava, che lui degli zingari non se ne frega niente. Prima cosa di tutto, noi non diciamo in giro che siamo zingari. Siamo abbastanza educati e non diamo problemi a nessuno».

Sganga lo ascolta in silenzio e poi chiede: «Ok, cosa deve fare?». Quasi certamente, però, immagina già la risposta che sta per piovergli addosso: «Lui viene qui e non lo faccio toccare da nessuno. Me le prendo io le soddisfazioni, ti do la parola d'onore mia. E già ti faccio vedere quanto vale la mia parola d'onore. Poi, quando mi conosci di persona, puoi capire che tipo di persona sono. Lui viene qui, mi prendo la mia soddisfazione e gli do la macchina nelle mani. E ti do la parola d'onore: sulla tomba di nonno e sulla vita di mia figlia che non lo tocca nessuno».

Per il gruppo nomade, insomma, la vicenda può risolversi solo con un atto di contrizione da parte del giovane Castiglia. Un paio di schiaffi - «La mia soddisfazione» - e finisce là, amici come prima. Per il momento, quindi, la sorella Luisiana non ottiene la restituzione dell’auto rubata, ma solo quella delle chiavi. Sarà lei stessa, di lì a poco, ad aggiornare suo fratello sull’evoluzione degli eventi. In un dialogo all’interno della pescheria, intercettato in modalità ambientale, gli prospetta la soluzione dell’incontro chiarificatore, ma a un certo punto subentra un altro uomo e dice la sua al riguardo: «Lo sai che gli vuoi dire? Se mi vuoi tirare due schiaffi, vieni da solo. Se sei un uomo, vieni che ti aspetto. Però, prima di andare là ti devi andare a prendere quella cosa». Per la Dda è la voce di Giulio Castiglia. E «quella cosa», altro non è che un’arma.

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Una pistola, in particolare. Che Luisiana tenterà di recuperare invano, salvo poi rivolgersi proprio a Sganga per ottenerne una. Sarà ancora lei, in seguito, a complicare senza volerlo la posizione del padre. A colloquio con un suo zio, ignara di essere intercettata, spiega che quell’arma non funziona bene. E gli riporta poi le parole pronunciate dal genitore: «Digli al compagno tuo che si è inceppata e di mandarmene un’altra». L’incontro si farà e tutto finisce poi in “gloria”: l’auto torna in possesso del legittimo proprietario, senza schiaffi e, soprattutto, senza pistolettate aggiunte. Le tensioni sfumano, i nervi si sciolgono. Nessuno paga un prezzo, ma il conto lo presenterà di lì a poco un terzo incomodo: la Giustizia.

Sette mesi dopo, William Castiglia finisce in carcere proprio come sua sorella Luisiana nell’ambito dell’operazione “Recovery”. Sulla donna pendono accuse ampie e articolate, su di lui, invece, solo quella relativa al pasticcio dell’arma. Per gli stessi fatti, Giulio Castiglia viene spedito ai domiciliari, ma ci resta solo poche ore. Il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza, infatti, supera quello del gip di Catanzaro: revoca della semilibertà, il che significa per lui l’immediato ritorno dietro le sbarre. Misura provvisoria, va da sé, perché il suo caso sarà affrontato tra meno di un mese in aula e, al termine dell’udienza a lui dedicata, i giudici decideranno se rendere quella revoca definitiva oppure no.