Un patto di ferro con la cosca De Stefano per riappropriarsi di quel territorio che era stato della sua famiglia per decenni, nel periodo più caldo degli anni ’90. Filippo Barreca voleva a tutti i costi tornare protagonista della scena criminale di Pellaro e Bocale. Ricostituire quella cosca smembrata da omicidi e pentimenti. E per questo, una volta rientrato a Reggio Calabria, non aveva esitato a tirare fuori quell’antico patto stretto con la famiglia mafiosa più potente della città: i De Stefano.

È quanto emerge dai primi verbali del neo pentito Francesco Labate, genero di Barreca, che sta raccontando le sue verità ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia reggina. Pagine piene di “omissis” che narrano di verità ancora da tenere sotto il segreto investigativo, perché con indagini tutte da sviluppare.Interrogato lo scorso 17 marzo dal sostituto procuratore Walter Ignazitto, Labate ha parlato del boss.

Il ritorno di Barreca

«Mio suocero – ha messo a verbale – dopo il suo ritorno a Reggio Calabria, ha ricostituito la cosca Barreca, insieme ad altri soggetti a lui fedeli, che in lui riconoscevano il capo del sodalizio. Per riavere il controllo del territorio si è rapportato con Carmine De Stefano e con omissis. Mio suocero si era rivolto a Carmine De Stefano perché – anche grazie ai suoi risalenti rapporti con Giuseppe De Stefano – aveva stretto un patto con la famiglia De Stefano, di cui intendeva ottenere l’esecuzione per recuperare il controllo del territorio». Labate prosegue: «Era mio suocero a stabilire importi e tempistiche dei pagamenti che gli imprenditori sottoposti ad estorsione dovevano effettuare. Mio suocero mi dava indicazioni al riguardo ed io le riportavo a Domenico Calabrò, che provvedeva a dare esecuzione alle sue direttive». Il pentito parla poi di alcuni danneggiamenti fatti proprio per punire gli imprenditori che “osavano” non pagare il pizzo».

Gli altri componenti della cosca

Labate lascia fuori la moglie dalle dinamiche della cosca: «Non aveva a che fare con le scelte di mio suocero». Per il pentito, Luana Barreca «poteva al più immaginare taluni aspetti, ma non sapeva che ci fosse un’attività estorsiva in corso» e «avrebbe preferito che io stessi a casa con i miei figli». Gli inquirenti mostrano poi la foto di Marcello Bellini, compagno della figlia di Barreca. «Era un componente della cosca – spiega Labate – e teneva i contatti con i rappresentanti di Archi e Santa Caterina. (…) Era in contatto in particolare con Donatello Canzonieri, nonché con Totò Libri». Anche quando parla di suo fratello, le accuse sono piuttosto blande: «Era l’accompagnatore di mio suocero», che, però, «non aveva di lui una grande considerazione (diceva che era “scemo”), e quindi non si occupava autonomamente di specifici fatti criminali: mi accompagnava, però, quando dovevo andare a ritirare i proventi delle estorsioni da Domenico Calabrò». 

Quanto a Filippo Palumbo, questi «non era un affiliato e aveva contatti con le ditte che venivano da fuori Reggio Calabria e le metteva in contatto con mio suocero per aggiustare le estorsioni». 

Il ruolo di Domenico Calabrò

Chi, invece, aveva un ruolo centrale, a detta del pentito, era Domenico Calabrò: «Era lui a gestire ogni attività della cosca, su delega di mio suocero». Calabrò sarebbe anche il vero collettore delle estorsioni: «Storicamente le aveva sempre gestite a Pellaro e, durante la carcerazione di mio suocero e dei suoi fratelli, aveva fatto da intermediario con quelli di Ravagnese, che erogavano periodicamente somme di denaro per il loro mantenimento». Labate ricorda pure come Calabrò andasse spesso dal suocero «insieme a Politi e omissis», per discutere riservatamente». Anche qui salta un altro nome, di un personaggio probabilmente oggetto di indagine. 

Giovanni Battista Foti e le intimidazioni

Anche su Giovanni Battista Foti ci sono dichiarazioni da fare: «Fa parte della cosca Barreca, ma ha autonomi interessi di ‘ndrangheta anche nella zona di San Giovanni». Il pentito ricorda come sarebbe stato Foti a «collocare una bottiglia con benzina sulla via marina di Pellaro vicino alla discarica, per intimidire un commerciante del posto che si rifiutava di pagare il pizzo». Sulla figura di Giovanbattista Fracapane (classe ’87), Labate spiega come questi interloquisse con il suocero, «in quanto parlava a nome di un rappresentante della famiglia De Stefano. Ritengo che si trattasse di Carmine De Stefano, in quanto, all’epoca, era l’unico di quella famiglia che aveva rapporti con mio suocero». Della cosca farebbe parte anche Pasquale Politi, «detto Pasqualino o “dentimangiati”. Si occupava delle estorsioni e delle connesse intimidazioni».