La gestione degli alloggi popolari a Reggio Calabria “era cosa loro”. L’operazione della Dda di Reggio Calabria che ieri ha coinvolto 37 persone trae origine dall'attività d'indagine posta in essere da diversi reparti dell'Arma dei Carabinieri (Nucleo Investigativo di Reggio Calabria e Compagnia di Villa San Giovanni) e della Polizia di Stato (Squadra Mobile e Digos), che, secondo l'impostazione accusatoria, avrebbe consentito di disvelare il totale controllo da parte della criminalità organizzata, dall'anno 2010 e fino a oggi, del settore delle assegnazioni delle case popolari nel Comune di Reggio Calabria, mediante rapporti stabili e radicati con politici e funzionari.

Un fiume di investigazioni, intercettazioni, documenti e racconti dei collaboratori di giustizia ha dato corpo all'attività investigativa svolta dal Nucleo investigativo dei Carabinieri che ha preso le mosse dalle dichiarazioni rese da Fortunato Pennestrì, all'epoca collaboratore di giustizia. Le conversazioni captate avrebbero consentito agli inquirenti di appurare l'esistenza di una forte commistione tra soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione e personaggi che sarebbero intranei al gruppo criminale Franco-Murina che opera nel quartiere Santa Caterina di Reggio Calabria, e alla contigua famiglia dei Morabito.

Si sarebbero avvalsi della forza di intimidazione, derivante dal vincolo associativo, e della rilevante condizione di assoggettamento e di omertà che deriva dall'esistenza ed operatività della organizzazione criminale. In sostanza, attraverso l'elencazione delle classiche caratteristiche e attività svolte dalla ‘ndrangheta, si contesta agli indagati di aver fatto parte della "cosca Murina Franco", federata alla cosca De Stefano Tegano e operante nel centro della città di Reggio Calabria.

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Il ruolo di Carmelo Murina: per la Dda è il capo

Ed è Carmelo Consolato Murina ad essere riconosciuto come il capo promotore della ‘ndrina. Lui, secondo gli inquirenti, nella gestione degli alloggi popolari avrebbe avuto «compiti di gestione delle attività criminali nella porzione di territorio di sua competenza, ossia il quartiere di Santa Caterina, unitamente a Roberto Franco e su mandato della cosca Tegano-De Stefano di Archi».

In particolare, si occupavano della «riscossione dei proventi delle estorsioni e la gestione ed il controllo dell'assegnazione e delle occupazioni degli alloggi di proprietà dell'Aterp e del Comune di Reggio Calabria».

L'indagato è stato condannato per tre volte sempre come partecipante alla cosca Tegano.

Un “incidente diplomatico", in particolare, avrebbe fatto emergere un quadro diffuso di illegalità, che è «scaturito in relazione all'appartamento occupato da Jolanda Murina e dal compagno Carmelo Caminiti». Per questo appartamento si sarebbero innescate «plurime conversazioni dalla quali si evince un quadro d'illegalità diffusa con la quale venivano gestite le abitazioni popolari nel quartiere di Santa Caterina, che, pur essendo di proprietà pubblica, erano occupate e spartite dall'organizzazione».

Il ruolo di "capo" del sodalizio si deduce da una serie di considerazioni fatte dallo stesso Murina il quale «poneva in essere una feroce critica all'operato dell'organizzazione relativa alla gestione delle case popolari posta in essere nel periodo della sua carcerazione.

Le dichiarazioni di Murina, come si è detto, permettevano di comprende quale fosse «il settore in cui il gruppo agiva (l'occupazione delle case) e il modus operandi adottato (ovvero quello della costante commercializzazione)».

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Così il boss dettava le regole negli alloggi popolari

Una volta uscito di prigione, Murina si sarebbe reso conto di come il gruppo avesse «scorrettamente gestito il settore (rivendendo a terzi tutte le case occupate, senza tenerne alcuna per il gruppo stesso) e aveva sistemato tutte le questioni ancora pendenti, comunicando poi il cambio di rotta che si sarebbe registrato da quel momento in poi».

Emerge, dunque, come Murina «aveva il potere criminale di dettare le regole da seguire nel settore degli alloggi popolari, avendo perfino il potere di inibirne l'operatività del gruppo o di taluno dei suoi componenti, anche con modalità violente se necessarie».

«lo... io... da quando sono uscito non ne fanno più meschinità, non hanno pensato che avevano figli, che potevano avere nipoti, e se si hanno due stanze, di aggiustarle e tenersele per loro...omissis... Hanno pensato solo a fare porcate! Le 1000 euro, con 2000 euro... E io, per i miei figli, dove stanno i miei figli? Dove stanno i miei figli? E... come infatti mi, mi sono fatto una promessa! Come vedo a qualcuno che si interessa, giusto, di qualche casa, le gambe gliele rompo!».

Dopo aver ripreso le redini, Murina avrebbe «dettato le nuove "regole" operative dell'organizzazione per il futuro». Aveva pensato anche a come “punire” chi aveva commesso «nefandezze» in sua assenza. Infatti, l'organizzazione doveva essere improntata alla correttezza criminale per cui «se una casa veniva venduta doveva essere effettivamente consegnata, anche a costo di venderla ad una cifra esigua. In secondo luogo, l'organizzazione doveva trattenere per sé delle abitazioni occupate, le quali, tuttavia, andavano assegnate in via prioritaria a sodali che, nel periodo di assenza del Murina, non avevano pensato solo a lucrare nel settore, compiendo le nefandezze che Murina tanto stigmatizzava ma dovevano andare, quindi, ai soggetti che più avevano sofferto ovvero non avevano lucrato (tra cui si annovera lo stesso Murina, interessato ad occupare l'appartamento da destinare alla figlia). Altra "strategia" messa in atto, in accordo con Morabito Michele, era quella di far assegnare le case a soggetti estranei al quartiere, così da sviare eventuali indagini».

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«Prima è giusto, penso io, chi ha sofferto, è che è giusto che deve averla – dice il presunto boss –. Quello, quello si deve fare! Poi se c'è qualcosa, per quello che si può fare, favorisco agli altri! Ma io non è… inc…, come voi altri! Non è che dobbiamo uscire pazzi, ad andarcene in casa d'affitto, o... quando 4 "porcheriosi" di merda, aumma aumma hanno fatto quello... hanno fatto quello che cazzo hanno voluto».

La reprimenda riservata alla dirigente Aterp

E il rapporto con chi amministrava gli appartamenti pubblici ha dato agli inquirenti ulteriori spunti. Infatti, anche la dirigente Aterp Minicò veniva redarguita dal “capo” Murina, il quale «la invitava ad adottare un atteggiamento meno disinvolto nella gestione delle partiche Aterp onde evitare di attirare su di sé le attenzioni delle forze dell'ordine («Gli ha dato confidenza anche a persone non meritevoli di confidenza! Che poi queste persone sono le classiche persone che portano danni nelle case!»).

Forti e aspre critiche venivano riservate dal Murina ai sodali che tentavano di aggirare le regole da lui imposte, come nel caso di Morabito Michele che aveva tentato di "scavalcare" il Murina e occupare l'appartamento che invece il capo aveva in animo di destinare alla figlia, presto sposa («”Michele mi "scavalla", hai capito?”, in questi termini Murina si lamentava con Vittorio Luciano della condotta del Morabito»).

Non essere esposti a rischio di indagini era fondamentale per Murina che criticava anche gli stessi sodali che «adottando comportamenti spregiudicati, mettevano tutto il gruppo a rischio di essere tratti in arresto («Gli ho detto: Chiedi il permesso, che è con i Morabito è che... inc., devono fare movimenti, che ci sono bordelli, ora..inc... Che nessuno... inc.nessuno...inc..., ma ora fate un'altra guerra qua! Non si...inc...queste cose, che siamo intercettati e ci arrestano a tutti! lo sono per i fatti miei qua e voi parlate di me")»

E per gli inquirenti altrettanto chiara è «la volontà di perseguire nello svolgimento dell'attività delittuosa pur nella consapevolezza di correre tale rischio».