Le origini dell'animosità che coinvolse per lungo tempo Vibo e Pizzo rimandano alla fucilazione di Gioacchino Murat e alla assegnazione della Capitaneria di Porto, Dogana, Monopolio di Stato a Monteleone
Tutti gli articoli di Blog
PHOTO
Sino a non molti decenni orsono, tra Vibonesi e Pizzitani vi era un forte sentimento di rivalità.
Vincenzo Ammirà, massimo poeta di Monteleone (come Vibo Valentia si è chiamata dall’Unità d’Italia sino al 1928), nella sua opera ottocentesca “La Ceceide”, ritenuta dall'immaginario popolare l'espressione più alta della poesia dialettale "oscena", definì Pizzo “lu perfidu paìsi”.
Le origini della rivalità
Volendo andare alle origini di tale animosità, che coinvolse queste due cittadine, qualcosa ci dice che dobbiamo andare ai fatti che videro Gioacchino Murat, re di Napoli, fucilato nel castello aragonese di Pizzo. I Monteleonesi, per quanto accaduto in quel 1815, pare non l’abbiano presa particolarmente bene. Difatti, dal 1806 al 1816, sotto il dominio napoleonico, Monteleone era stata elevata a capoluogo della Calabria Ultra. Conclusosi il decennio francese, reinsediatesi i Borbone, tale privilegio le è stato tolto. Capoluogo ritornò ad essere Catanzaro.
Pizzo, invece, aveva il dente avvelenato nei riguardi di Vibo perché le sono state sottratte la Capitaneria di Porto, la Dogana, la Finanza e il Monopolio di Stato. E riteneva, altresì, che molti uffici statali, quale la Pretura, il Dazio, l’Esattoria e l’Ufficio del Registro erano stati chiusi a vantaggio di Vibo.
Dai racconti che ci giungono relativamente a quegli anni, quando d’estate i giovani Vibonesi “scendevano” a Pizzo, perché centro balneare e luogo di particolare attrazione e movimento, non era raro che avvenissero furenti scazzottate con i coetanei Pizzitani.
I nomignoli
I Vibonesi nei riguardi di Pizzo stornellavano:
“Pizzitani mal’arràzza
portàstuvu lu diavulu ‘ncarròzza
lu levàstuvu chjàzza chjàzza
Pizzitani mal’arràzza!”
I Pizzitani rispondevano chiamando i Vibonesi “cardijàri”. I Vibonesi ribattevano chiamando i Pizzitani “mangiagàrgi”. Per cardijàri, la spiegazione, alquanto semplice, era perché pare che i Vibonesi fossero adusi a catturare i cardellini per farne commercio.
La lavorazione del tonno
Per quanto riguarda “mangiagàrgi”, mangia branchie, la motivazione è più articolata e risale alla pesca del tonno. Quando a Pizzo la tonnara “levava” e i tonni nelle reti erano in grande abbondanza, parte del pesce veniva venduto fresco sul posto e portato nei paesi limitrofi; la maggior parte del pescato, comunque, non disponendo dei mezzi attuali (camion frigoriferi e congelatori), veniva lavorato per la conservazione, sott’olio e sotto sale - “piasciàllogghju” e “tunnìna” - e ciò avveniva sia negli stabilimenti che nelle famiglie.
Vista la grande quantità e la rapidità con la quale le carni dovevano essere lavorate, non si andava certamente per il sottile nel tagliarle e separare gli scarti (si racconta di una pesca miracolosa che non potendoli lavorare tutti, i tonni vennero bruciati sulla spiaggia). Le teste, per esempio, venivano recise di netto e gettate, ed è da qui che ha origine l’appellativo conferito ai pizzitani dai vibonesi. Ragazzi e donne del popolo, per lo più, attrezzati di coltelli, si avventavano su queste parti tagliando e togliendo la polpa rimasta e, se si considera la testa di un tonno di un quintale e più, di roba buona ce n’era.
Chi assisteva a queste scene, non essendo del posto e non avendo dimestichezza con la materia, vedendo queste persone armeggiare con i coltelli tra le branchi dei pesci: MANGIAGÀRGI, PIZZITANI MANGIAGÀRGI, era la logica conclusione che ne traeva!
Già da diverse generazioni tale animosità tra Vibonesi e Pizzitani non esiste più, non ha più motivo di essere. Vibo Valentia nel frattempo è divenuta Provincia e Pizzo ne fa parte, ma un tempo non era affatto così.
Anche questa è storia!