L’uomo che ispirò Gabriel García Márquez, Premio Nobel per la Letteratura nel 1982, e che lo spinse a scrivere il racconto “Blacaman el bueno, vendedor de milagros” (Blacaman il buono, venditore di miracoli), si chiamava Pietro Aversa ed era nato a Castrovillari (Cosenza) il 23 febbraio 1902.
Nel racconto dello scrittore colombiano, Blacaman, da principio è un venditore di rimedi medici da strada che inganna il pubblico con miracoli inesistenti per poi finire come un uomo buono che muore e torna in vita. Nella realtà, Pietro Aversa ha lasciato in giovane età il suo paese in Calabria ed è diventato un fachiro, illusionista, ipnotizzatore, domatore di belve, una celebrità mondiale.

Si racconta che ancora bambino, seguì un circo che passava per il suo paese e di lì ebbe inizio la sua storia di fachiro più noto dell’epoca. Erano i tempi in cui queste forme di spettacolo itineranti incantavano il pubblico con le loro figure suggestive ed i loro numeri mozzafiato ed incredibili, concorrendo con la settima arte, quel cinema ancora agli albori.

 


Blacaman era apparso improvvisamente sui palcoscenici europei a metà degli anni '20, nessuno sapeva da dove. Egli sosteneva di essere figlio di artisti, di madre italiana e di padre indù, nato a Calcutta e cresciuto in Italia. Oltre al repertorio standard dei fachiri, fu uno dei primi a diffondere la camminata sulla scala delle spade.
Il suo circo, “Blacaman Circus”, che contava oltre trenta leoni ed una moltitudine di coccodrilli, fu uno dei più grandi e conosciuti al mondo, e proprio in giro per il mondo (dall’America Latina, alle maggiori capitali d’Europa e persino in Cina) Blacaman riuscì ad incantare con le sue doti, diventando, per un breve periodo, uno degli uomini più ricchi della sua epoca.

 

Ipnotizzava persone ed animali, dalle galline, ai leoni e ai coccodrilli, ma il numero per il quale è rimasto inimitabile e famoso nel mondo circense ed al quale si è ispirato l’autore di “Cent'anni di solitudine”, uno dei maggiori scrittori del ‘900, è quello di farsi seppellire dentro una bara sotto diversi metri di terra, sfidando la morte che sarebbe dovuta avvenire per asfissia, uscendo vivo e vegeto quando lo dissotterravano, tanto da essere soprannominato “il cadavere vivente”.
Un vero e proprio fenomeno in quegli anni della prima metà del ‘900, da poter competere con le sue incredibili imprese con il celebre Houdini.

 

Lo statunitense Time Magazine, in un articolo apparso sulla rivista del 23 settembre 1929, scriveva:
" […] il beniamino degli amanti di circo argentini è" Blackamon, il cadavere vivente ". Un italiano dalla corporatura tarchiata, un oscuro e misterioso personaggio che predilige i turbanti di raso e le vistose vesti orientali, affascina il pubblico del circo permanente di Buenos Aires con spilli che infila attraverso le sue guance e le sue braccia. […] Raggiuge il culmine della sua esibizione fremendo, urlando e andando in trance. Gli inservienti in uniforme sollevano il corpo rigido di Blackamon e lo pongono in una bara con il coperchio di vetro appositamente preparato, lo seppelliscono alla profondità di due metri nel terreno sabbioso dell'anello del circo. Per tre ore sarebbe rimasto lì […] "
Fu scritturato e recitò finanche in una pellicola di Hollywood, dove impersonò se stesso in un film del ‘39 dal titolo “You Can’t Cheat an Honest Man”.

 

Costretto a concludere l’attività per motivi di salute e per una grave crisi che interessò non solo il mondo del circo, nel 1946 si ritirò in Venezuela e, così come era apparso, uscì definitivamente dalla scena.