FOTOGALLERY | Nato a Corigliano, da vent'anni segue e documenta le partenze e i viaggi di chi scappa da guerre, fame e povertà: «Dopo tutto questo tempo la cosa che più mi stupisce è che si continui a guardare a questo fenomeno come a qualcosa di nuovo. Gli esseri umani si spostano da sempre, le uniche cifre spaventose sono quelle dei morti»
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L’inizio di questa storia lo mostra a 18 anni mentre passeggia per il porto di Brindisi con una macchina fotografica rubata a sua sorella, davanti a un barcone carico di profughi appena giunti dall’Albania. «Facevo il servizio militare, fino ad allora quelle scene le avevo viste solo in tv». Di anni, dal momento di quella folgorazione, ne sono passati trenta e da più di venti Francesco Malavolta si dedica al racconto di chi fugge dall’orrore della guerra, della fame e della sete, dei cambiamenti climatici, dell’assenza di futuro. La fotografia ha scelto lui e lui ha scelto da che parte condurla: «La parte giusta del mondo».
Ogni immagine è una storia: un volto, un abbraccio, una mano che cerca la vita. «Il mio obiettivo è rendere omaggio a una umanità caparbia che un passo alla volta guadagna centimetri di libertà».
Nato a Corigliano, vive a Roma ma è ovunque inseguendo quei movimenti di persone che ha deciso di documentare, lungo i confini di un’Europa sempre più blindata. Come fotogiornalista collabora con l’Ue, agenzie di stampa internazionale, organizzazioni come l’Unhcr e l’Oim.
Perché i migranti?
«Era un fenomeno che mi incuriosiva e negli ultimi 15 anni, con l’aumentare degli spostamenti verso il continente europeo, il mio lavoro si è quasi esclusivamente focalizzato su questo. Di migranti si parla tanto ma sempre in termini numerici e allarmistici, si conoscono poco le storie di chi fugge. Così ho iniziato a documentare anche i luoghi di partenza e i viaggi».
In un tuo post su Instagram scrivi che consideri «la fotografia come una finestra sul mondo in grado di spalancare le coscienze sulle realtà di luoghi e persone» e che per te è il mezzo con cui hai deciso di stare «dalla parte giusta del mondo». Come si fa a essere sicuri che un’immagine possa veicolare proprio quel messaggio?
«Il messaggio contenuto in una foto, se fatta con empatia, diventa più forte della parola perché la traccia di un’immagine rimane incisa nella mente per un’infinità di tempo, le parole invece le dimentichiamo più facilmente. Basti pensare alle fotografie iconiche della storia, o a quella del bambino morto sulla spiaggia di Bodrum (il piccolo Alan Kurdi, ndr): chi ricorda un titolo di giornale o un editoriale che accompagnava quella foto? E quella foto ha spinto la Germania ad accogliere un milione di rifugiati siriani. Per me stare dalla parte giusta significa questo: cercare di cambiare le cose, la difesa dei diritti per tutte e tutti».
Tecnica, sguardo e cuore: in che proporzione sono nelle tue foto?
«Lo sguardo è la cosa principale: quando arrivi in un posto devi prima di tutto capire cosa fotografare. E per esserne in grado un professionista deve avere una preparazione a monte, deve aver studiato, non può improvvisare. Poi c’è il cuore, che è lì ma per un istante lo congeli perché devi fare il tuo lavoro, hai una responsabilità che è quella del racconto. Però a un certo punto si riapre e ti aiuta a trovare le immagini giuste. La tecnica si accompagna a tutto questo, ma è uno strumento e non basta».
Riesci a mantenere il distacco mentre racconti o ti senti parte della storia?
«Io entro nella storia. Certo, la fuga, il viaggio, le violenze, la morte sono esperienze personali di chi le vive sulla propria pelle e, per quanto tu possa comprenderla, quella sofferenza non è la tua perché a fine lavoro tu hai un posto dove andare. Ma mentre faccio la foto io sono nella storia».
In questi 20 anni quali cambiamenti hai visto nel fenomeno migratorio?
«Dopo tutto questo tempo la cosa che più mi stupisce è che si continui a guardarlo come qualcosa di nuovo, invece riguarda l’umanità stessa. Gli esseri umani migrano da sempre: per scappare dalla fame, dalla guerra, dai disastri ambientali, per mille motivi. Se non si fa nulla per portare giustizia sociale, soprattutto in Paesi come quelli africani, le persone in fuga non possono che aumentare. Succede anche a noi, solo che noi possiamo usare il passaporto perché siamo fortunati: quanti medici vanno via per cercare uno stipendio o condizioni di vita migliori? Ciò che sta cambiando è che invece di abbattere i muri noi li stiamo alzando. Le persone vengono respinte con violenza e gli operatori dell’informazione sono sempre più tenuti a distanza, così racconteranno i numeri e non le storie».
Perché le storie creano empatia, i numeri spaventano…
«Nel 2022 nel mondo ci sono stati 110 milioni di profughi e più della metà erano persone sfollate all’interno dei loro stessi Paesi: in confronto a questi i numeri di chi si muove verso l’Europa sono piccolissimi. C’è un’emergenza strutturale, si veda oggi Lampedusa, che è una piccola isola e non riesce a contenere tutti gli arrivi, ma se si guarda al fenomeno generale le cifre sono basse. Gli unici numeri che a me fanno paura sono quelli di chi non ce la fa, i morti. Il Mediterraneo è la via di fuga meno trafficata ma è quella più drammatica perché registra tantissime vittime. Senza contare quelli che muoiono durante le traversate nel deserto, che nessuno quantificherà mai».
Se dovessi immortalare il momento attuale in una foto?
«Un giorno mi piacerebbe fotografare gli stessi luoghi che sto fotografando adesso solo per la loro bellezza. Il mare è una cosa bella, se si potesse fotografare solo con l’orizzonte piatto, senza barche e giubbotti di salvataggio, senza morti, senza dolore, e così le vie terrestri, con il verde, i fiori, gli animali: quella sarebbe la foto perfetta».
Gli sbarchi: sui media se ne parla molto, ma dal punto di vista delle immagini secondo te come vengono trattati?
«Spesso in maniera superficiale. Certo, i media fanno il loro lavoro, danno notizie. A volte gli operatori sono costretti a stare a distanza e fotografano gruppi di persone sulla banchina: loro raccontano quello che vedono, anche se a me questo non basta. Poi ci sono giornali e tv schierati verso la non accoglienza che mostrano sempre masse di uomini quando invece più della metà sono donne e minori, ma donne e minori creano più empatia. Vedere solo barche cariche di persone non ha senso, sono i volti e le storie che danno completezza al racconto. Bisogna sempre pensare al messaggio che si dà, ma succede sempre meno perché si lavora ormai in velocità e questo porta anche a un po’ di distrazione, solo che la distrazione fa male a chi guarda e a chi è fotografato».
Sei nato a Corigliano, hai vissuto a Palermo, ora stai a Roma ma sei sempre in giro per il mondo: casa tua dov’è?
«Ovunque ci sia qualcuno che mi ospita, che allarga le braccia e condivide qualcosa con me. Nei tanti viaggi in Africa o in Medio Oriente, quando entri in certe case poverissime, siedi per terra e il cibo, quel poco che c’è, viene messo al centro: per me anche quella è casa. Sono fiero di essere italiano, calabrese, coriglianese, però mi sento figlio della terra che calpesto. Che non è mia, io sono solo di passaggio. E questo dovremmo capirlo una volta per tutte».