Uno scrigno di tesori per le sue risorse agricole e naturali, uno sviluppo però mai pienamente realizzato a causa dei problemi che questo territorio si porta dietro da tempo, a cominciare dalla carenza infrastrutturale
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Quello della Sibaritide è un racconto di luci e ombre. Di una terra ricca non solo delle sue coltivazioni ma anche di arte, cultura e storia. Terra di antiche tradizioni e di una modernità sempre solo sfiorata. Fiera del suo passato, spaventata dal futuro. Azzoppata di servizi essenziali, di diritti reclamati ma rimasti obiettivo a cui tendere.
Scrigno di tesori da una parte: clementine, olive, riso. Il Codex Purpureus e il Castello ducale a Corigliano Rossano, a Cassano il Parco archeologico. E poi il mare e le lunghe spiagge, protese in un eterno slancio verso uno sviluppo turistico mai davvero esploso.
Perché dall’altra parte la Sibaritide è un buco nero, in cui finiscono le legittime aspirazioni di un popolo che sa di meritare di più. I problemi della sanità sono quelli che si registrano nel resto della Calabria, ma qui si intrecciano a una mobilità resa complicata dallo stato di infrastrutture che hanno condannato questo territorio all’isolamento. Il resto del mondo da quaggiù lo si guarda con il binocolo, fermi sulla bistrattata ferrovia ionica – dove è ancora in corso l’elettrificazione della tratta Sibari-Crotone – o mentre si procede guardinghi sulla Statale 106, l’arteria che collega la Calabria da un capo all’altro costringendo chi vi si avventura a viaggi estenuanti quando non mortali. La modernizzazione è partita, ma la strada da percorrere è ancora lunga.
Sul fronte del porto (di Corigliano Rossano) si consuma intanto la partita della multinazionale Baker Hughes, pronta a un investimento ancora oggetto di discussione tra i sì, i no e i ni: chi gongola per le prospettive occupazionali, chi teme per le altre vocazioni dello scalo, chi dubita per l’impatto paesaggistico.
Costantemente in bilico tra l’essere e il divenire, la Sibaritide è terreno fertile soprattutto per le promesse. Promesse da mantenere e promesse già infrante. Come quella di un progresso industriale svanito troppo presto lasciando al suo posto uno scheletro, l’ex centrale Enel le cui ciminiere, diventate in più di cinquant’anni un simbolo di questo luogo, presto non ci saranno più. Cosa ci sarà al loro posto ancora non si sa. In vista c’era la realizzazione di una modernissima centrale a idrogeno in riva allo Ionio. Ma poi il colosso dell’energia ci ha ripensato. Transizione verde? No, si vira al nero, ancora una volta. Quel buco in cui è finita l’ennesima aspirazione di una terra che ha le capacità ma non si applica.