Al centro del dibattito tra politica e magistratura è l’intera riforma della giustizia che tra gestione del conflitto e inasprimento delle pene deve vare in conti anche con lo strumento delle intercettazioni. E a non tirarsi indietro non sottraendosi mai al confronto è il segretario nazionale di Magistratura democratica Stefano Musolino attuale sostituto procuratore a Reggio Calabria.

Non solo separazione delle carriere, un'altra delle riforme che potrebbe intaccare il lavoro degli inquirenti è quella relativa alle intercettazioni. Abbiamo chiesto quali sono le prospettive e sul punto si torna a toccare un nervo scoperto. «Il problema riguarda un sano rapporto tra politica e magistratura, che fatichiamo a riportare entro i binari di rispetto delle rispettive competenze. La riduzione dei giorni a quarantacinque per disporre le intercettazioni rappresenta un ostacolo alle indagini. Ci sono fenomeni che non riguardano la criminalità organizzata, perché per fortuna è esclusa da questa riforma, ma ci sono reati significativi, ad esempio in materia ambientale, di pubblica amministrazione e di economia tributaria, che incidono su beni giuridici molto rilevanti e che rischiano di avere una tutela ridotta a causa di questi interventi. Tali interventi, secondo me, non risolvono i problemi che i loro promotori sostengono, ma creano un vulnus. Ciò riduce la capacità dei cittadini di conoscere le azioni giudiziarie, una cosa molto grave. Inoltre, l'impedimento per la stampa di citare ordinanze cautelari, già introdotto, farà sì che si potranno avere tre giornalisti che raccontano tre versioni diverse dello stesso provvedimento, senza che nessuno sappia esattamente cosa dice. Non mi sembra una genialata né un provvedimento efficace».

Un momento di riforma e di cambiamento importante. Anche il Ddl Sicurezza sta stravolgendo un po' il modo in cui concepiamo alcune libertà. Anche da questo punto di vista si andrà a conformare quello che sarà il futuro della giustizia. «Noi siamo molto preoccupati come Magistratura Democratica. Parlo in qualità di segretario generale di Magistratura Democratica. C'è un problema nella gestione del dissenso. Ci troviamo in un momento in cui scelte molto importanti si presentano davanti a noi. Ci sono riforme costituzionali significative, idee diverse di Stato, di governo e di rapporti tra istituzioni che si confrontano.

La tutela e la gestione del dissenso, credo, debbano avvenire tramite strumenti diversi da quelli penali. Purtroppo, lo strumento del diritto penale è sempre più utilizzato in modo simbolico, con aggravamenti di pena e creazione di nuove fattispecie di reato. In un sistema che, peraltro, non funziona, tutto questo aggrava i tribunali con fascicoli e procedimenti che non sono in grado di gestire, aumentando il sovraffollamento carcerario, già a livelli che avevano giustificato in passato la condanna dello Stato da parte della Corte di Giustizia Europea, all'epoca della sentenza Torreggiani. Non ci sembra che siano questi gli strumenti adatti, in particolare lo strumento penale, per gestire il dissenso e i conflitti che il dissenso crea. I conflitti possono essere deleteri se non nascono dal rispetto delle rispettive posizioni, ma possono essere molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Tuttavia, per gestirli e governarli non si può utilizzare lo strumento penale né si possono inventare nuove norme per radicalizzare e criminalizzare il dissenso».

 Il diritto di esprimere dissenso o di opporsi a un'opera, come nel caso del ddl Sicurezza, è importante; ad esso si affianca quello relativo a ambiente e infrastrutture, fortemente sostenuto da questo governo. Queste riforme, in qualche modo, stanno ledendo la Costituzione?
«Questo è il rischio reale, perché sono previste aggravanti per alcuni reati, specificamente quando le manifestazioni di protesta riguardano opere ritenute essenziali per le infrastrutture nazionali, che aumentano la pena per fatti identici commessi per uno scopo specifico come questo. Questo crea un sostanziale squilibrio tra posizioni sostanzialmente uguali, che più volte in circostanze simili la Corte Costituzionale ha stigmatizzato come non coerenti con il dettato costituzionale. È una delle ragioni per cui interveniamo in questo dibattito, auspicando che il Parlamento ascolti non solo noi. È importante, su questi temi, fare chiarezza, perché si tende a creare una contrapposizione binaria "amico-nemico" che non ci appartiene. È fondamentale considerare che, su questi argomenti e posizioni, insieme a una parte della magistratura che rappresentiamo, ci sono anche le camere penali italiane, e associazioni di professori di diritto penale. Esiste, quindi, un’ampia schiera di giuristi che sta sottolineando come non possa essere lo strumento penale la leva con cui gestire il dissenso sociale».

 

In una terra segnata dalla ‘Ndrangheta, Salvini ha dichiarato che il Ponte sarà una mega struttura che attirerà interessi economici enormi, con un sistema per impedire infiltrazioni. Per chi vive e conosce a livello giuridico questa terra, è una prospettiva plausibile?
«Deve esserlo, altrimenti non si investirà più in questa terra, il che è inaccettabile. Credo che dobbiamo avere il coraggio di assumerci responsabilità. Abbiamo bisogno di opere infrastrutturali. Se pensiamo che la ‘Ndrangheta si infiltrerà sempre e impedirà gli investimenti nel nostro territorio, resteremo bloccati. Sono rimasto incuriosito e inquieto, vedendo che, appena è partito il Pnrr, molte testate e giornalisti nazionali hanno richiamato l’attenzione sulla ‘Ndrangheta. Questo, in qualche modo, è sembrato un modo per dire di non investire qui perché c’è la ‘Ndrangheta, inibendo investimenti nel Mezzogiorno. Questo è inaccettabile. Abbiamo esperienze concrete da questo punto di vista: Gioia Tauro è sicuramente un porto dove la ‘Ndrangheta fa affari con la cocaina, ma interveniamo sul fenomeno senza impedire l’operatività del circuito economico e dell’indotto che ruota intorno al porto. Dobbiamo avere la capacità di far crescere e sviluppare questo territorio, sapendo che la ‘Ndrangheta ha una capacità di infiltrazione che va contrastata, ma comprendendo che non è l’inibizione degli investimenti la soluzione dei problemi».