Misericordia e Giustizia. I Mafiosi sono nostri Fratelli? A dieci anni dalla scomunica di Papa Francesco la Conferenza Episcopale Calabrese ha affrontato il delicato e spinoso tema nel corso di una tavola rotonda a Lamezia Terme. La scomunica, in occasione della morte per mano 'ndranghetista del piccolo Coco’ Campilongo, fu un atto fortissimo, ma avvenuto prima di allora  e che risuona a ancora nelle coscienze dei cristiano e del clero calabrese.

La sessione pomeridiana del convegno, in particolare, ha posto l’accento sulla necessità che ha la Chiesa, oggi in Calabria, di costituire un Centro regionale di formazione per sostenere la pastorale antimafia. Lo ha detto con forza Don Ennio Stamile, il sacerdote simbolo della lotta alla mafia nell’alto Tirreno cosentino, referente di Libera. La Chiesa calabrese sente evidentemente il bisogno di attivarsi nella lotta concreta al fenomeno mafioso che, come si sente dire spesso nei convegni, va combattuto a livello culturale. Tema che mette tutti d’accordo.

Ma il punto di vista della Chiesa Cattolica passa attraverso concetti come la misericordia, il perdono che, non necessariamente, devono coincidere con la giustizia terrena. Il messaggio molto chiaro della Cec parte da tre concetti fondamentali su cui si deve poggiare la lotta alla mafia. La condanna, il biasimo e l’isolamento. Questa la strada che la Chiesa calabrese indica oggi ai cristiani. La chiara condanna che, in ogni caso, non esclude la speranza ed il perdono cristiano. Ma come fare a conciliare misericordia e giustizia? È certamente un fatto di fede. È il passaggio filosofico dal non essere all’essere. È la sfera che riguarda la coscienza, soprattutto nei confronti dei pentiti, dei collaboratori di giustizia a molti dei quali, come si è detto nel convegno, è arrivato come un macigno il messaggio forte di Francesco. Ed ecco che l’altro principio cristiano e monito biblico. Quello della conversione che parla di verità e morte del male. Ma, se la Chiesa da un lato può indirizzare, al suo interno, un cammino di cura e di conversione d’altra parte la denuncia all’autorità statale diventa fondamentale.

Il mafioso va denunciato, va condannato e deve espiare la sua pena. Per poi, possibilmente passare alla fase rigenerativa, al recupero spirituale etico e morale di chi ha commesso anche i delitti più efferati. Don Stamile ha citato due simboli della lotta alla mafia. Un cristiano ed un comunista. Monsignor Bregantini che aveva già dato l’esempio concreto con le sue battaglie per le cooperative sociali e Peppino Impastato che, tra le altre cose, predicava la bellezza come antidoto alla mafia. «Una bellezza interiore – ha specificato -  una bellezza delle relazioni sane, di amore in famiglia, di rapporti umani  che per i mafiosi non esistono».

Altra voce autorevole quella di Don Pino Demasi, l’altro Parroco coraggio che da anni lotta sul campo la ndrangheta nell’area del reggino attraverso i suoi progetti sulle terre confiscate. Anche lui referente di Libera. «Non dobbiamo confinare il fenomeno a fatti straordinari. La mafia vive il quotidiano. La politica, il mercato, la vita di ogni giorno e condiziona perché si sostituisce allo Stato con la forza». Don Demasi non ha dubbi: attraverso il sistema dei rapporti che costruisce, la mafia regola la società. E la Chiesa in tutto questo come si pone? L’equivoco di fondo nasce dalla religiosità mafiosa, cristallizzata nel tempo, che la criminalità usa non solo strumentalmente ma, fatto ancora più inquietante, come sovrastruttura, come potere che si appropria della simbologia, di riti e, perfino dello stesso  potere divino.

«Ecco perché non esistono mafiosi atei ed anticlericali, ecco perché i mafiosi sono in testa alle processioni e le organizzano, in maniera ossessiva. Non è solo opportunismo ma una vera e propria religione di servizio». Don Pino De Masi cita altre due colonne dell’antimafia: Falcone e Gratteri. Nel momento in cui si parla del codice di giustizia che, per i mafiosi rende infamante il tradimento e quindi il pentitismo. La simbologia cristiana in mano ai mafiosi risulta dunque una sciagura, una sovrastruttura che restituisce una teologia tutta mafiosa. Analisi fredda e chiara che non lascia spazio a nessun equivoco. E, se è vero che la Chiesa nel Mezzogiorno e quindi anche in Calabria, nella sua tradizione conservatrice, che si perde addirittura nei fondamenti basiliani, ha vissuto la sua missione rimanendo ai margini del fenomeno mafioso fino a qualche anno fa, oggi invece intende dare una sterzata. Lo fa attraverso i principi che regolano essa stessa, come fonte di perdono e di misericordia, ma anche come  indicatore a sostegno  della giustizia terrena. E lo vuole compiere seguendo i fondamenti che ci riguardano tutti a partire dall’articolo 27 della Costituzione Italiana.

Altri interventi autorevoli sono stati quello di Don Roberto Oliva, Don Giuseppe Fazio e Don Antonino Iannò che hanno evidenziato la necessità che la Chiesa ha di chiarire come non basta il sacramento per definirsi cristiani e che serve una nuova pastorale a dieci anni da quella scomunica.