VIDEO | Maria Eugenia Caligiuri, studiosa di Neuroscienze all'Università Magna Graecia, non ha dubbi: «Dobbiamo sperarci perché può essere uno strumento di aiuto nella diagnosi di malattie più o meno gravi»
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L’intelligenza artificiale si appresta a influenzare uno ad uno tutti gli aspetti pratici quotidiani per le sue indubbie applicazioni vantaggiose – ad esempio in sanità – non esenti tuttavia da forti implicazioni etiche. La dobbiamo temere o sperarci?
«Sperare sì, temere no – asseconda la professoressa Maria Eugenia Caligiuri, ricercatrice di Neuroscienze presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro – Siamo ben lontani dall’idea di una AI (acronimo di Artificial Intelligence) che si ribella al suo creatore. Sperare sì perché può essere uno strumento che aiuta la diagnosi nelle malattie più o meno gravi, rare, che può coadiuvare la ricerca e la clinica. Il fine ultimo è quello di fare arrivare queste tecniche avanzate al letto del paziente, al monitoraggio quotidiano».
Più di ogni altra innovazione tecnologica degli ultimi decenni l’intelligenza artificiale può essere strumento straordinario di cui disciplinare però le comode ma discutibili scorciatoie. «In aula non ci sono problemi: del resto è la stessa AI che generando i testi è la prima a dire “io sono solo una intelligenza artificiale”. Lo studente distratto rischia di portarsi dietro un commento della AI che è tanto intelligente da mettere le mani avanti per togliersi ogni responsabilità».
E gli studenti, qual è il loro atteggiamento davanti ad una opportunità così grande ma ancora inesplorata? «Talvolta i ragazzi sono impauriti – dice la dottoressa che ha preso parte alla Notte della Ricerca di Umg con una relazione sul tema e prove pratiche con i giovani studenti da orientare agli studi – nonostante la generazione che nasce e cresce nella tecnologia digitale non sempre questi giovani sono conoscitori degli strumenti che hanno in mano, non li utilizzano appieno o ne hanno timore».