Il suono del fallimento della campagna vaccinale in Calabria ha i decibel e il timbro nasale che esce da un megafono. Quello che ieri impugnava il medico che, al riparo di una porta blindata della sede del Consiglio regionale, chiedeva a decine e decine di anziani stremati di tornarsene a casa, perché di vaccini non ce n’erano più. «Abbiamo solo dosi di AstraZeneca – ha urlato il camice bianco – somministrabile solo a chi non ha gravi patologie… ok?».

Vadino signori vadino. La delusione dopo l’attesa. Inutile, snervate. Non soltanto per il fisico, che a 90 anni è quello che è. Ma soprattutto per la psiche e per l’anima di un popolo, quello calabrese, che ormai ogni giorno sembra sempre più rassegnato a non avere un futuro.
Se quello che dovrebbe essere il tempio della rappresentanza democratica, il Consiglio regionale appunto, diviene il girone infernale dove un’orda di anziani claudicanti si ammassa chiedendo pochi millilitri di speranza liquida che gli verrà puntualmente negata, beh, allora davvero siamo sul fondo del pozzo. E siamo così annichiliti, rassegnati e impotenti che neppure guardiamo su.

Scene come quelle che si sono viste a Reggio non so l’eccezione, ma la norma. Ovunque, in Calabria, si registrano file e disagi, vaccini spariti e inoculati a chi non aveva diritto di ricevere ora la sua dose. E serve a poco sospirare davanti alle idilliache immagini del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (79 anni), che si è messo in fila allo Spallanzani di Roma per farsi immunizzare seguendo le regole e attendendo il proprio turno anagrafico come previsto nel piano vaccinale locale.
Non è quell’Italia con la quale dobbiamo fare i conti tutti i giorni che Dio ha mandato in terra. Non è quello il Paese nel quale viviamo davvero.

Quella in cui resistiamo senza alcun scopo se non andare avanti, è invece l’ultima regione nel report nazionale dei vaccini, con quasi 100mila dosi di farmaco che risultano non ancora utilizzate, nonostante siano state già consegnate e nonostante la gente venga rimandata a casa perché, poi dicono con un megafono, “i vaccini sono finiti”.

È una regione dove un presidente per caso, il facente funzioni Nino Spirlì, ha dichiarato da mesi la sua personale guerra al Covid combattendo però esclusivamente sul campo di battaglia più facile da dominare: la chiusura delle scuole. Come se le scuole avessero bisogno di lui per chiudere in caso di pericolo reale.

Tutto il resto non conta. Non i vecchi in fila, non i flaconi spariti, e neppure i numeri falsati sul contagio in Calabria. E non conta neppure la vergogna di una politica regionale che, a Consiglio formalmente sciolto e senza nulla da fare, ancora procede ad assumere collaboratori e portaborse, a dispensare prebende elettorali per prepararsi a tornare come se nulla fosse. Lo abbiamo denunciato e scritto, ma restano tutti zitti. Come resta zitto il commissario alla Sanità, Guido Longo, che preferisce andare a fare scena (quasi) muta da Giletti, richiamando alla mente l’inquietante performance del suo predecessore Cotticelli.

Ma zitti restano anche i cittadini calabresi rannicchiati in un lockdown delle coscienze che cede apparentemente soltanto davanti agli schermi dei telefonini, nell’illusione che sfogarsi sui social serva a qualcosa e non sia, invece, un incredibile vantaggio per un potere sempre più insensibile, arrogante e autoconservativo.

Forse è per questo che la spazzatura ai lati delle strade cresce come non ha mai fatto prima. Forse è per questo che infiliamo le ruote delle nostre auto nelle solite buche stradali - sempre le stesse, sempre nello stesso posto - senza neppure più sobbalzare e imprecare. Forse è per questo che rinunciamo senza batter ciglio ad ospedali degni di questo nome, a trasporti decenti, alla banale ma irraggiungibile modernità di una prenotazione online. E poi, quando ci urlano in faccia con un megafono che i vaccini sono finiti, facciamo l’unica cosa che sappiamo fare: giriamo sui tacchi e torniamo a casa.