In un quadro globale in cui l'inadeguata democrazia europea mantiene i caratteri normativi e securitari della fortezza biopolitica ma perde la capacità di accettare e rispettare la differenza, il naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023 diventa un punto di non ritorno per la riflessione sull'ethos, ossia uno degli ultimi momenti in cui è stato possibile riconoscere il luogo esatto in cui si cela il giusto sentire a partire dalla manifesta incoerenza tra ciò che abbiamo sempre detto e ciò che siamo.

Il corto circuito si è prodotto nell'istante in cui i corpi senza vita arrivati sulla spiaggia a Steccato di Cutro e quelli senza nome dispersi nella fossa comune del Mediterraneo sono entrati in relazione, proprio attraverso la dimensione del sentire, con il paesaggio nel quale siamo nati, con le filastrocche che abbiamo ascoltato dalle nostre madri, con i nostri rapporti di parentela, persino con le nostre abitudini alimentari. Per arrivare a cogliere ciò che si discosta dalla nostra identità è necessario che, all'esperienza culturale, se ne sommi un'altra specifica che ci consenta di umanizzare il nostro senso di appartenenza, comprendendo che umanizzarsi non significa diluirsi ma, per l'appunto, capirsi pur nella differenza.

Se non si vuole rimanere arroccati nelle norme sociali, nell'habitus, è opportuno che l'ethos includa anche ciò che una cultura immagina e sogna, dialogando con altre presenze. L'apparente inessenzialità del sogno diventa essenziale specialmente in un'epoca in cui migrazioni, indiscriminati traffici di merci e mutamenti delle forme relazionali assumono una centralità senza precedenti. Così, ripensare la tragedia di Cutro significa servirsi dell'immaginazione, evitare semplificazioni categorizzanti e identità supervalorizzate, mettersi al posto degli altri e, da ultimo, ridefinire il nostro sentire. Perché immaginare, in fin dei conti, vuol dire proprio slegare la ragione da sé stessa, vivere degli altri, dice Hannah Arendt.

Ma possiamo legittimamente pensare che, dai 94 morti e dagli innumerevoli dispersi di Cutro, siamo stati in grado di maturare l'urgenza di smurare il Mediterraneo se, da due anni a questa parte, sono state innumerevoli le occasioni in cui abbiamo provveduto a innalzare muri altissimi tra noi e l'Altro? Non siamo stati capaci nemmeno di piangere i morti e di rielaborare lo shock collettivo e siamo ben lontani dall'accettare che le politiche di contenimento dei fenomeni migratori abbiano fallito se, ad esempio, l'etica dell'emergenza, largamente predominante, non si è mai trasformata in quella che Fabrice Olivier Dubosc chiama etica della generosità.

E allora continuiamo a mostrare i muscoli, ad agitare le spade, a parlare quasi esclusivamente di trafficanti e scafisti, credendo che questo abbia a che fare con la nostra identità, senza che però mai faccia capolino la parola “responsabilità”, senza che mai venga riconosciuta la vulnerabilità di profughi e rifugiati, fingendo d'ignorare che, alla fine della fiera, non si tratta che dell'altra faccia della nostra debolezza.