All’incontro che si è svolto a Reggio Calabria anche l’arcivescovo Morrone: «Dobbiamo parlare il loro linguaggio e stare vicino ai nostri ragazzi»
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Non è più solo una questione di connessione o di dipendenza dagli schermi. La solitudine che attraversa il mondo giovanile ha radici più profonde, fatte di silenzi, di assenze, di parole che non si dicono più. Sotto la superficie brillante dei social, dietro lo scorrere ininterrotto di messaggi, immagini, notifiche, si nasconde un silenzio che pesa. È il silenzio dell’assenza. Un’assenza che non è solo fisica, ma soprattutto relazionale. Gli adulti cominciano a intuirlo. Qualcosa sfugge, si sta perdendo. Le generazioni si parlano sempre meno, si osservano appena, si sfiorano senza toccarsi davvero. Il digitale, con le sue promesse di presenza, ha moltiplicato le distanze.
Non si tratta di un’accusa verso i giovani. Al contrario: è uno sguardo che torna indietro, che si volta verso chi ha il compito - e forse oggi anche la colpa - di accompagnare: «Stiamo ancora educando o abbiamo semplicemente smesso di provarci?».
Una riflessione che riguarda prima di tutto gli adulti
A Riparo di Cannavò, periferia collinare di Reggio Calabria, si è acceso un confronto che ha messo al centro non solo i giovani, ma lo sguardo degli adulti su di loro. Un’occasione rara in cui le istituzioni, la Chiesa, la scuola e il mondo della giustizia si sono ritrovati fianco a fianco, non per parlare ai ragazzi, ma per interrogarsi su come si parla con loro.
Dietro l’apparente freddezza del titolo – “La solitudine giovanile nell’era digitale. Tra connessione virtuale e isolamento reale” – si è aperta una discussione carica di umanità. Non una lezione, ma un tentativo di ascolto, di messa in discussione, di vicinanza. Organizzato dalla Parrocchia San Nicola di Bari e Santa Maria della Neve, in collaborazione con la Pastorale Giovanile diocesana, il convegno ha fatto da cornice a un dialogo vero. Le tecnologie, la scuola, la famiglia, la pandemia: tutto è entrato nel campo. Ma il centro del discorso non è mai stato il digitale, bensì la distanza che esso rende visibile.
Il grido di Roberto Di Palma: «Contatti umani, non solo virtuali»
Roberto Di Palma, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, ha affrontato il tema in modo diretto. Lo ha definito «non facile da affrontare», ma ha sottolineato che si tratta di una questione «che va trattata». Perché, ha detto, «la solitudine dei giovani, soprattutto con l’avanzare della digitalizzazione del mondo, è un problema che si sta diffondendo notevolmente».
Per il magistrato, non è più il tempo dell’indifferenza. Serve «accendere dei riflettori su questo fenomeno», con una responsabilità che parte dalla famiglia.
«Il messaggio, più che ai giovani, dovremmo rivolgerlo alle famiglie», ha affermato, chiedendo «maggiore attenzione» e la possibilità di «trovare dei contatti che siano umani e non soltanto virtuali».
La solitudine, per Di Palma, non si combatte con i mezzi tecnologici, ma recuperando i legami concreti. È un dovere collettivo, che riguarda «tutti quanti noi»: genitori, «ma anche nonni, zii, educatori», tutti chiamati a «riguardare un attimo questo mondo e la piega che sta prendendo». Una piega che, ha detto, «mortifica sempre di più l’individualismo, sempre di più la persona», lasciando spazio a una dimensione digitale che può essere «deleteria».
Di Palma ha riconosciuto il ruolo anche della scuola, ma ha messo in guardia da un errore frequente: quello di trasferirle compiti che non le spettano. «Sì, anche la scuola ha un ruolo», ha detto, «ma non dobbiamo cadere nella tentazione di darle compiti che non sono della scuola».
La vera radice educativa, ha ribadito con forza, «è la famiglia». È lì che «si forma il primo nucleo essenziale di vita di ciascun giovane», e questo «non dobbiamo dimenticarlo». Una frase che chiude con chiarezza il senso del suo intervento: non si tratta solo di osservare i giovani, ma di ripensare il ruolo degli adulti attorno a loro.
Il Vescovo Morrone: «Non dite “ai miei tempi”. Vivete questo tempo»
L’intervento dell’Arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, Fortunato Morrone, ha segnato un momento di riflessione profonda e insieme appassionata. Ha parlato da pastore, ma anche da uomo che conosce bene le fatiche del mondo adulto. «I giovani e l’isolamento sono un tema importante. E forse la responsabilità è un po’ di tutti: delle famiglie, della comunità educante».
«È un tema faticoso per noi adulti», ha detto il Vescovo. E poi ha raccontato di un padre che diceva al figlio: «Quando ero ragazzo io, alla tua età...», per introdurre una riflessione tutt’altro che scontata: «Ogni età va vissuta dentro un contesto ben preciso». Viviamo oggi, ha detto Morrone, in una realtà in cui il virtuale si è mescolato all’esistenza reale, al punto che «i nostri telefonini sono diventati come un’appendice del nostro corpo». Non sono più strumenti, «siamo dentro», ha detto. E con questa immersione totale, diventa difficile per gli adulti riuscire a star dietro all’accelerazione che i ragazzi vivono ogni giorno».
Ma non è tutto negativo. Al contrario, l’Arcivescovo ha voluto sottolineare anche le potenzialità di questa nuova epoca: «Offre possibilità strepitose. La comunicazione oggi ci permette di essere più vicini». E ha citato un episodio: una ragazza salvata da un pestaggio grazie a una telefonata fatta col cellulare. Il telefonino le ha salvato la vita».
Accanto alle potenzialità, però, resta il problema dell’isolamento. Morrone non lo attribuisce solo al Covid, ma piuttosto alla mancanza di accompagnamento degli adulti. «Abbiamo sottovalutato il passaggio tra l’online e la relazione reale», ha spiegato. Perché nella rete puoi dire qualunque cosa e sparire in un secondo, ma quando entri in un rapporto reale, dove senti l’altro, dove ne percepisci il profumo, lì devi imparare a gestire l’incontro. E noi adulti non abbiamo insegnato come si fa». Nonostante questo, Morrone non cede al disfattismo. «Non facciamo una catastrofe. Io sono ottimista», ha detto, ribadendo che «i ragazzi possono aiutarci a vivere diversamente questo tempo». È un invito reciproco, fatto con umiltà: «Dobbiamo parlare il loro linguaggio, stargli vicino, come avete fatto voi oggi con noi».
Un incontro corale
A fare da sfondo al confronto, l’Auditorium Santa Maria della Neve di Riparo Cannavò, periferia collinare di Reggio Calabria. Nessuna passerella, nessuna liturgia ufficiale: solo volti presenti, orecchie attente, e la volontà di stare dentro una questione che interroga tutti.
L’incontro è stato promosso dalla Parrocchia San Nicola di Bari e Santa Maria della Neve, in collaborazione con la Pastorale Giovanile. A raccogliere l’invito, una platea ampia e composita: autorità civili, religiose e militari, rappresentanti del mondo accademico, amministratori pubblici, professionisti, docenti, famiglie. E soprattutto tanti studenti, veri protagonisti silenziosi della giornata. Tra loro, anche gli alunni dell’IPALB TUR “Giovanni Trecroci” di Villa San Giovanni, impegnati nel servizio di accoglienza sotto la guida della dirigente Enza Loiero: una presenza discreta, ma concreta, che ha dato al convegno un respiro pienamente educativo. Non è stato un convegno come tanti. È stato un momento in cui mondi diversi si sono fermati, per riconoscere che qualcosa sta cambiando. E che capirlo insieme può fare la differenza.
Una distanza da colmare, insieme
Se c’è un messaggio che questo incontro ha lasciato dietro di sé, è che la distanza tra generazioni non è un destino, ma una sfida da raccogliere. I giovani non chiedono formule, chiedono presenza. E gli adulti, almeno oggi, si sono fermati ad ascoltare, a interrogarsi, a cercare parole nuove per ricucire ciò che si è strappato. Non è solo una questione tecnologica. La solitudine dei ragazzi non nasce dai social, ma dall’assenza di relazioni che sappiano restare. I dispositivi non sono il nemico: diventano pericolosi solo quando sono l’unica forma di contatto rimasta. E allora il punto non è combatterli, ma riaprire spazi dove possa esistere anche altro: lo sguardo, l’ascolto, la pazienza, la fiducia.
In fondo, nessuna generazione può educare un’altra senza mettersi in discussione. È quello che ha fatto oggi una comunità intera, con la sua voce e le sue fragilità. E l’ha fatto partendo da una frase antica, citata dall’Arcivescovo Morrone, ma che sembra scritta per oggi: «Non dire: ai miei tempi… Vivi questo tempo come tempo di grazia e di opportunità». Sta lì, forse, la chiave più vera. Non nel rimpianto, non nel controllo, ma nella disponibilità a camminare insieme, adulti e giovani, senza paura e senza nostalgia. Perché anche il futuro, a volte, si salva semplicemente così: provando a restare svegli. Insieme.