Il procedimento di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost., ormai è incardinato in Senato, come A.S. n. 615, con l’assegnazione nella giornata di ieri del c.d. ddl Calderoli alla 1 a Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente. In tema di attuazione del regionalismo differenziato, di fronte alle determinazioni ormai assunte, pare che si sia dinanzi a un progetto complessivo capace di ammaliare con promesse vaghe, fumose e che rinviano, più che alla prescrittività propria del diritto, alla vacuità della rassicurazione, anche se lo strumento del diritto è impiegato con l’intento (vano) di fissare regole e principi che dovrebbero avere la forza di valere per il futuro.

Una premessa di contesto è non solo utile, ma necessaria. Il regionalismo differenziato è quel modello di distribuzione dell’autonomia che si determinerebbe a seguito dell’aumento delle competenze che le Regioni possono richiedere e sulle quali esercitare la potestà legislativa senza più l’intervento dello Stato: fra tali materie rientrano, per esempio, quelle dell’istruzione, della salute e della tutela e sicurezza del lavoro, ma anche quelle delle grandi reti di trasporto e di navigazione, dell’ordinamento della comunicazione nonché della produzione, trasporto e distribuzione nazionale (sic!) dell’energia. A norma dell’art. 116, c. 3, Cost., ulteriori forme e condizioni particolari «possono» essere attribuite con legge dello Stato, «su iniziativa» della Regione interessata, «sentiti» gli enti locali. La legge statale dovrà essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti «sulla base di intesa» fra lo Stato e la Regione interessata.

La realtà fattuale è quella per cui queste forme di surplus di autonomia andrebbero a inserirsi in un contesto territoriale, economico e sociale in cui non è vero che l’Italia si mostra divisa in due parti, ma solo perché le parti sono molte di più! Il contesto, diverso da quello prospettato, è quindi quello di una sperequazione talmente elevata da essere accettata come irrisolvibile tanto che chi va piano non riuscirà mai a spingere chi tira (nella metafora della locomotiva impiegata in una delle tante conferenze stampa dal ministro Calderoli per la presentazione del ddl che prende il suo nome e di cui tratteremo da qui a breve), ma sarà piuttosto trattato come una zavorra (nella metafora: si staccheranno i vagoni che rallentano).

Il regionalismo differenziato allora non risponde a una logica costituzionalmente orientata di autonomia (che non può che significare differenziazione) ma, dato il contesto storico, economico e sociale in cui si inserirebbe, sarebbe intrinsecamente incostituzionale perché violerebbe i principi di solidarietà interpersonale e interterritoriale richiesti come doverosi dagli articoli 2, 3 e 5 della Costituzione. Il tutto in un procedimento libero dal diritto e senza controllo del Parlamento e degli organi di garanzia costituzionale. Si sente dire che quelli di cui si tratta sono falsi problemi perché il regionalismo differenziato sarà possibile solo dopo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (i LEP) che garantirebbero l’uguaglianza nel godimento dei diritti. Non è così!

L'art. 1, cc. 791-798, della legge di bilancio approvata a fine dicembre, consente l’attuazione del regionalismo differenziato subordinatamente alla determinazione dei LEP; ciò è vero, ma con la precisazione che si sta parlando di mera determinazione e non già di una loro attuazione previo finanziamento. Le risorse finanziarie che dovrebbero garantire i LEP non sono previste, perché, semplicemente, non esistono. È previsto, però, un procedimento molto complesso e con tempi perentori per la loro determinazione: si prevede la costituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di una «Cabina di regia» nella quale siedono (solo) esponenti del Governo centrale e i (soli) presidenti della Conferenza delle regioni, delle province e dei comuni.

Cabina, questa, che entro un anno - anche con l’aiuto di un organo consultivo (la Commissione tecnica per i fabbisogni standard) composto da persone nominate dallo stesso Governo- dovrebbe predisporre uno o più schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (i dPCm) con cui saranno determinati i LEP e i correlati costi e fabbisogni standard. Quindi il bilancio (a cui rinviano i fabbisogni standard) definirà il livello essenziale dei diritti, anche se questa è una evidente torsione rispetto a quanto sancito dalla Corte costituzionale per cui è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (Corte cost., sent. n. 275/2016).

Come dicevamo i termini sono perentori, tanto che qualora le attività della Cabina di regia non si concludessero nei termini stabiliti si determinerebbe una situazione paradossale in cui il Governo commissarierebbe sé stesso, nominando un Commissario con il compito di portare a completamento, entro un determinato termine, «le attività non perfezionate» e di proporre l’adozione di uno o più dPCm.

Chi scrive ha difeso la costituzionalità dei dPCm approvati nell’ultimo biennio perché meramente attuativi di quanto già disposto da un decreto-legge controllato dal Presidente della Repubblica e - se del caso - dalla Corte costituzionale e comunque dal Parlamento che lo convertiva entro 60 gg.; inoltre e soprattutto i dpcm adottati durante la pandemia costituivano quella catena normativa dell’emergenza la cui base legale era legittimata dai casi straordinari di necessità e di urgenza richiesti come presupposto della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. È chiaro, quindi, che la legge di bilancio non può sostituirsi a un decreto-legge e rinviare ai dPCm, anche perché i LEP, che determineranno il quantum di garanzia dei diritti, sono coperti da riserva assoluta di legge.

L’impressione, quindi, è che la legge di bilancio da ultimo varata rinvii, comunque, a quell’atto amministrativo (il dPCm) perché il Governo sa che esso potrà essere controllato solo dal giudice amministrativo, ma non anche dal Presidente della Repubblica né dalla Corte costituzionale che giudicano per l’appunto solo le leggi (preventivamente e successivamente).

Se ciò non bastasse, il disegno di legge (ddl Calderoli) deliberato dal Consiglio dei ministri e che costituisce l’inizio del procedimento legislativo (Atto Senato n. 615) che porterà alla deliberazione di una legge, è in bilico tra due opposti inconciliabili: l’eversione costituzionale e l’inutilità. Nel primo polo troviamo l’emarginazione del Parlamento ridotto a un mero consulente di cui poter fare financo a meno. Nel ddl oggi in discussione, il Parlamento compare per esprimere atti di indirizzo che sono non solo non vincolanti ma addirittura non necessari (basta leggere gli artt. 2, c.5, e 3, c. 2, ddl). A ribadire quanto già traspariva dalla legge di bilancio, secondo l’art. 5 del ddl, dai LEP non dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze (e questo è chiaro non parlando di leggi ma di atti amministrativi); ciò che lascia perplessi e disorientati è la previsione per cui tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione composta da nominati dai due Enti (ancora una volta il Parlamento è esautorato) e finanziate mediante la compartecipazione al gettito di tributi statali generato nel territorio regionale per dare copertura finanziaria al surplus di autonomia differenziata: il c.d. residuo fiscale, ma ignorando colpevolmente la concezione solidaristica e perequativa che invece promana dalla previsione costituzionale con riferimento “alla minore capacità fiscale per abitante” (art. 119. comma 3, Cost.).Detto diversamente, se ciò che è generato da una Regione rimane in quella Regione il principio di solidarietà sociale ed economica che la Costituzione definisce a livello nazionale (artt. 2 e 53 Cost.) che fine farà?

La domanda è retorica, evidentemente, soprattutto se si pensa che le tasse sono pagate dai cittadini e non già dalle Regioni e sulla base del reddito e non già del luogo di residenza; ma l’epilogo sarebbe crudamente scontato in quanto ciò determinerebbe un ulteriore approfondimento del divario tra Nord e Sud in termini di spesa pubblica statale per ogni cittadino. E ancora, la nomina di una Commissione, seppur costituita fra i più autorevoli studiosi della materia, per la definizione dei LEP (materia ad altissimo tasso di politicità) non può che determinare (ancora una volta) la volontà di limitare il ruolo delle sovrane aule parlamentari. L’altro polo, quello dell’inutilità, è occupato dalla fonte del diritto utilizzata: una legge di procedimento (qual è, appunto, quella delineata nel ddl Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata) non può vincolare una legge successiva (quella richiesta per l’approvazione dell’intesa), per la semplice ragione che fra due leggi che hanno lo stesso valore prevale quella da ultimo adottata.

Se il lettore ha avuto le energie di arrivare fin qui, ecco spiegato il trucco: tranquillizzare sulla garanzia dell’eguaglianza ma con impegni fumosi e non veritieri, con parole promettenti che possono sempre essere messe da parte, con quella disinvoltura a cui una certa classe politica ci ha abituati da troppo tempo ormai.

E ancora, la legge che nel prossimo futuro dovesse attribuire nuove competenze alle regioni potrebbe essere approvata anche prima che vengano (anche solo) definiti i LEP. Come si insegna nei corsi di diritto pubblico, ancora una volta lex posterior derogat priori.

Ma la cosa più sconcertante, lo si dice da giuristi che cercano nella legge chiarezza per la certezza del diritto, è che non avremmo la risposta alla domanda circa il ruolo del Parlamento a valle della presentazione della intesa raggiunta tra il Governo e il Presidente della giunta regionale: il Parlamento potrà discuterla (tutelando l’interesse nazionale di cui è portatore) o dovrà limitarsi a ratificarla o meno?

Ammettiamo che non sappiamo rispondere a questa domanda perché il ddl sul punto è oscuro e volutamente nebuloso. A norma dell’art. 2, c. 8, ddl, si scrive che le Camere dovranno «deliberare» ai sensi dell’art. 116, c. 3, della Costituzione, e nulla più. Se ne è parlato come di una terminologia ambigua (Villone), tale da consentire, al momento giusto, la prevalenza di quell’interpretazione per cui basterà la mera ratifica dell’intesa raggiunta. Ma lo si dice già da ora, la tesi della non emendabilità non sarebbe assolutamente convincente, per una serie di argomentazioni: è lo stesso articolo 116 a richiamare il ruolo centrale del Parlamento, organo che tutela l’interesse nazionale attraverso la potestà di materie di cui si priverebbe a favore delle Regioni attraverso un processo di vera e propria decostituzionalizzazione (Gambino). La natura rinforzata della legge di differenziazione (una volta devolute le materie si potrà tornare indietro solo con una legge previa intesa fra Stato e Regione) priva, infatti, il Parlamento della potestà legislativa su tali materie, sulle quali ora esercita quel ruolo di garanzia di uniformità a tutela dell’interesse nazionale. Semmai, per il rispetto del principio di leale collaborazione si dovrebbe pensare a quali modalità attuare per dar seguito all’ammissibilità di emendamenti al ddl di differenziazione che dovrebbe essere valutata dalla Regione e dal Governo nel pieno rispetto dello stesso art. 116, c. 3, Cost.

Ma su tutto questo il ddl tace, non dice volutamente nulla. E allora bisogna ritornare alla Costituzione, unica fonte che può limitare la legge ordinaria. In tale prospettiva si muove una Legge costituzionale di iniziativa popolare (c.d. LIP - Villone) per la cui presentazione si stanno raccogliendo le firme, e per la quale mancano solo pochi giorni (QUI si può firmare con SPID). Insomma, sarebbe meglio non attendere qualche anno prima che l’estensore stesso del ddl definisca come una «porcata» la futura legge, che passerebbe alla storia come il porcellum II’.

*costituzionalisti DESF-Unical