Il Ministero dello Sviluppo Economico ha dato il via libera all'iter per nuove trivellazioni nello Ionio. Lo scorso 31 dicembre, infatti, è stato pubblicato sul bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle geo risorse il visto del vicepremier Di Maio che autorizza tre nuovi permessi di ricerca petrolifera su una superficie complessiva di 2200 km/q a favore della società americana Global Med. L’indagine del sottosuolo prevede anche l'uso dell'airgun, le famigerate bombe d'aria e sonore.

Il caso sollevato dai Verdi

A sollevare il caso è stato Angelo Bonelli, segretario nazionale dei Verdi: «Il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio – ha dichiarato ad un’agenzia nazionale il massimo responsabile del movimento del sole che ride - ha dato il via libera alle trivelle per la ricerca del petrolio nel mar Ionio. In data 31 dicembre 2018 è stato pubblicato sul BUIG (bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle geo risorse) che autorizza tre nuovi permessi (F.R43-44-45.GM) di ricerca petrolifera». E poi aggiunge l’affondo politico: «È il regalo di Luigi Di Maio alla Puglia, alla Calabria e alla Basilicata dopo Ilva e le autorizzazioni alla Shell rilasciate dal ministero dell'Ambiente».

Dopo la Tap, il M5s si spacca anche sulle trivellazioni

Se da un lato, dunque, c’è Luigi Di Maio, leader politico del Movimento 5 Stelle ed attuale vicepremier con la delega all’Economia e al lavoro, ha messo la sua firma sul “lascia passare” alla ricerca del petrolio e del gas naturale nel bacino ionico, dall’altro c’è il ministro all’Ambiente, il generale Sergio Costa, scelto e voluto alla guida del dicastero verde dai pentastellati, che nelle ultime ore ha smentito proprio il vice primo Ministro: «Mai ho firmato autorizzazioni a trivellare il nostro Paese e i nostri mari e mai lo farò».


Parole perentorie, che evidenziano anche un certo imbarazzo politico nel dover gestire una situazione ereditata dal precedente Governo Renzi. «I permessi rilasciati in questi giorni dal ministero dello Sviluppo economico giorni – spiega Costa - sono purtroppo il compimento amministrativo obbligato di un sì dato dal ministero dell'Ambiente del precedente governo, cioè di quella cosiddetta sinistra amica dell'ambiente». C’è però una contraddizione di fondo che se scagiona il governo sul piano puramente tecnico-amministrativo (hanno ratificato un provvedimento assunto già dal precedente esecutivo) dall’altro mette il Movimento 5 Stelle sulla graticola quantomeno sul piano politico. Già, perché, la campagna No-Triv è stato uno degli assi portanti della campagna elettorale grillina per le politiche ambientali. Un clamoroso passo indietro è evidente che scontenta la base e soprattutto chi aveva fondato speranze in questo Governo.

Infatti, le rassicurazioni del ministro Costa, sembrerebbero non bastare: No Triv, ambientalisti e cittadini (quelli che fanno parte del 30 e passa percento che ha votato al referendum del 17 aprile 2016) sono già sul piede di guerra soprattutto alla luce del "tradimento" rimediato da un altro movimento ambientalista, quello dei No Tap, che ha dovuto "incassare" il via libera dell'esecutivo a un progetto nei confronti del quale il Movimento 5 Stelle si era sempre dichiarato fortemente contrario.

Il “flop” del Referendum abrogativo del 17 Aprile 2016

Il 17 aprile 2016 si tenne in Italia il Referendum abrogativo del 2016  per proporre la soppressione della norma che estende la durata delle concessioni per estrarre idrocarburi in zone di mare (entro 12 miglia nautiche dalla costa) sino all'esaurimento della vita utile dei rispettivi giacimenti. Malgrado la netta preponderanza dei suffragi favorevoli all'abrogazione della norma (pari all'85,85% dei voti validi), il referendum non produsse effetti poiché votò soltanto il 31,19% degli elettori residenti in Italia e all'estero. È stato il primo referendum abrogativo chiesto da almeno cinque Consigli regionali nella storia della Repubblica Italiana: tutti i precedenti 66 quesiti referendari votati a partire dal 1974 furono indetti previa raccolta di firme dei cittadini.

La Regione Calabria e il ricorso al Consiglio di Stato

Ma la corsa all’oro nero nei fondali ionici è un pallino che da sempre stuzzica le grandi compagnie petrolifere mondiali che hanno tentato, attraverso tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese, di ottenere sempre maggiori autorizzazioni per sfruttare le risorse del sottosuolo. I contrasti giunsero con l’allora esecutivo Renzi e con il Pd che, sostenendo la campagna per il no al Referendum alla modifica del decreto autorizzativo delle trivellazioni durante, si schierò apertamente dalla parte delle grandi holding energetiche e contro comitati, associazioni e ambientalisti No-Triv.


Non solo, lo dicevamo, a sostenere la campagna contro le trivellazioni ci furono anche le Regioni del Sud molte delle quali a traino Pd. Come la Regione Calabria che, nonostante tutto, incalzata dalla forte spinta civica anti trivelle impugnò il provvedimento del Governo Renzi davanti al Tar del Lazio. In un primo momento la Giustizia fu favorevole alle ragioni esposte dalle Regione, e si arrivò alla sospensione dei provvedimenti ministeriali. Pochi mesi dopo però il Tribunale amministrativo regionale ribaltò la decisione nella sentenza di merito dando ragione al Ministero dell’Economia e dello Sviluppo: «il ricorso - è scritto sulla sentenza del tribunale amministrativo di Roma - è irricevibile ed infondato e deve essere respinto».

Insomma una bagarre che sembra essersi conclusa nel peggiore dei modi. Anche se la parola fine sembra non essere ancora stata scritta con gli Ambientalisti sul piede di guerra e molti dei partiti politici, desiderosi di fare lo sgambettone al governo Salvini-Di Maio, pronti a sfruttare la scia del dissenso per innescare la crisi.