Negli ultimi giorni, Ivan Gennaro Gattuso è stato accostato alla panchina del Valencia. Dopo uno stop di circa un anno, il tecnico, nato a Corigliano, è dunque pronto a ritornare ad allenare. Se l'accordo con la società spagnola è praticamente in dirittura d'arrivo, la situazione dal punto di vista ambientale si è complicata dopo le proteste di parte dei tifosi del Valencia, che non vogliono Ringhio come loro condottiero, considerandolo «razzista e sessista». 

Il tecnico calabrese, in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha parlato di ciò che sta accandendo e lo ha fatto senza rabbia, ma con un autentico dispiacere e, soprattutto, con la sorpresa di vedersi definire come non è. La sensazione è che lo specchio dei social rifletta un profilo che non è il suo. E che su questa base si fondino giudizi e campagne che lo hanno preso di mira prima in Inghilterra quando era stato chiamato ad allenare il Tottenham e ora anche da parte di frange di tifosi del Valencia. 

«Quando sento dire che sono razzista mi sembra di impazzire -sottolinea il 44enne calabrese -. Nessuna persona, mai, può essere giudicata per il colore della pelle. Conosco tanti con la pelle bianca che non si comportano bene. Il razzismo va combattuto, sempre. Ho allenato decine di giocatori che avevano la pelle diversa dalla mia, nel mio ristorante ne lavorano tre, ho avuto compagni di squadra ai quali ho voluto bene. Per me non conta il colore della pelle, conta la persona. La sua onestà, la sua lealtà».

«Nasco in un paese di pescatori, Corigliano Calabro. I miei erano falegnami. Io ho lasciato casa a dodici anni - afferma Gattuso -  per fare quello che mi piaceva e che sentivo di saper fare: giocare al calcio. Sono andato a Perugia, da solo. Ho patito tanto, ma in silenzio. Ero piccolo però sapevo che la scelta era quella giusta. Mio padre ha avuto grande coraggio e tanta fiducia in me. Per questo l’ ho sempre amato tanto».

«Mia madre ha pianto molto e mi dispiaceva. Ho vestito più di settanta volte la maglia della nazionale. Ogni volta che sentivo l’inno di Mameli - continua l'allenatore -, anche prima della finale di Berlino, pensavo a quando lei mi urlava di tornare a casa perché stavo, bambino, a giocare sulla spiaggia per otto o dieci ore. Mio padre è andato a lavorare in Germania per un anno e mezzo. Un quarto della mia famiglia è sparso nel mondo, tutti sono andati a cercare quella fortuna che la Calabria non gli aveva concesso. Come diavolo potrei essere razzista?».