Il ritorno del cantante milanese con Il ritmo delle cose: niente rime facili, ma un viaggio introspettivo tra dipendenza, solitudine e pornografia. «Non volevo la classica hit da Festival, ma un ponte verso il futuro»
Tutti gli articoli di Spettacolo
PHOTO
Sanremo, 75° Festival della Canzone Italiana 2025 - Seconda Serata. Nella foto Rkomi
Dopo un anno lontano dai riflettori, Rkomi torna sul palco del Festival di Sanremo con Il ritmo delle cose, un brano pop che non segue le regole della classica hit festivaliera. È una canzone che non ha un capo né una fine, affronta temi come la dipendenza, la pornografia, la solitudine e la vita di coppia. Niente rime facili, niente “cuore” e “amore”, ma un vero e proprio viaggio dentro se stesso. E proprio questo percorso interiore sembra essere al centro del suo nuovo progetto musicale.
Rkomi ci racconta il suo ritorno e le sfide di portare a Sanremo una canzone lontana dalle convenzioni.
Il ritmo delle cose non è il classico brano da Festival. Quanto hai rischiato con questa scelta?
«Abbastanza. Sappiamo tutti qual è la canzone giusta da portare a Sanremo, ma ho deciso di seguire quello che mi sembrava giusto per me in questo momento. È un pezzo che ti bombarda di domande, senza uno svolgimento lineare. Affronta tanti temi diversi e non ha un vero capo né una vera coda. Non è una canzone semplice, ma è un ponte tra quello che ero e quello che sto diventando».
Nel testo parli di “violento decrescendo” e citi addirittura Jep Gambardella. Sei davvero l’anti-algoritmo come dici?
«Sì, in questo pezzo ho voluto giocare con l’idea di uscire dall’algoritmo, che oggi detta le regole per tutti. Ho citato La grande bellezza perché mi ha sempre affascinato quel senso di vuoto di Jep. Io stesso, nell’ultimo anno, ho vissuto una vita più casalinga, molto “interno”. Fumo ed esco poco, sto in mutande fissando il vuoto… Ho sentito il bisogno di rallentare e decrescere per guardare al futuro con occhi nuovi».
Parli spesso di decrescita. Cosa significa per te?
«Significa tornare indietro per rimettere a fuoco le cose. Mi sono accorto che avevo bisogno di noia, di quei momenti che artisticamente mi hanno sempre dato di più. Stavo conducendo una vita troppo lineare, troppo comoda. Mi sono fatto qualche sgambetto da solo per rimettermi in difficoltà e ritrovare nuovi stimoli, come studiare musica e leggere libri importanti».
A proposito di letture, hai citato autori come Delmore Schwartz e Paolo Sorrentino. Quanto hanno influenzato il tuo percorso?
«Molto. Leggere è stato fondamentale per la mia scrittura. Ho scoperto Delmore Schwartz grazie a Lou Reed e ai Velvet Underground, poi sono passato a Burroughs e Rimbaud. Paolo Sorrentino è stato una vera illuminazione: Hanno tutti ragione mi ha dato lo spunto per scrivere Odio, quindi sono. Leggere autori così profondi mi ha permesso di trovare nuove chiavi narrative».
Nel brano parli di solitudine e isolamento. Come trovi che stiano i ragazzi di oggi?
«Vedo tanti ragazzi soli e annoiati. È una condizione comune, ma in quartiere c’è ancora un senso di famiglia, ci si dà sempre una mano. Nella palestra che ho aperto vedo come si aiutano a vicenda, si fanno forza insieme. È una cosa che mi emoziona e che cerco di alimentare il più possibile».