VIDEO | Il regista di “Io, Capitano” ha ricevuto ieri nella città dei bruzi la notizia che la sua opera sarà la candidata italiana per le nomination. «Amo la Calabria, mi piacerebbe girare qui ma è la storia a comandare»
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Da una macchina scura scende Matteo Garrone, a passo svelto, intorno alle sei del pomeriggio. Mentre la folla fa la fila nella sala principale per guardare il suo film, “Io Capitano”, il regista romano – ospite della Primavera del cinema, e del suo patron Giuseppe Citrigno - s’infila nella saletta per godersi il documentario del collega regista, Riccardo Milani, dedicato a Gigi Riva, Nel nostro cielo un rombo di tuono.
«Amo la Calabria, qui ho fatto molti sopralluoghi per Pinocchio – spiega in seguito -. Girerei molto volentieri in questa regione, anche se io parto dalle storie e quelle poi mi suggeriscono l’ambientazione».
L'odissea di Seydou
Due ore dopo, in sala, gli applausi accompagnano l’ultima scena di un film diverso, che restituisce una visione originale su un tema, quello dell'emigrazione, che sembrava avesse già detto tutto, a torto. Garrone, che questo film l’ha cullato dentro a lungo prima di capire che la strada giusta era quella di regalare al pubblico un nuovo paio di occhi, con cui osservare l’altro punto di vista, ha usato il suo stile e la sua capacità per fare un passo al di là di un confine che pareva tracciato, oltre i luoghi comuni, oltre i recinti della narrazione unica. Ha preso il binocolo e lo ha rovesciato, ampliando la prospettiva, mostrandoci la cornice.
In corsa | L’annuncio di Matteo Garrone da Cosenza: “Io Capitano” è il candidato italiano all’Oscar
“Io, Capitano” non è la storia di un viaggio di un uomo disperato, è la storia di un ragazzo di sedici anni, Seydou, che vive in una famiglia felice, anche se modesta. Per lui cantano le sirene social di un Paese dei Balocchi che si chiama Europa, strizzato nei reel sincopati, nei video divertenti, nello scintillio del successo. Lì tutti i sogni si possono realizzare, è un’isola del tesoro davvero a due passi.
Tra Collodi, Stevenson e London
E Garrone, non a caso, cita Stevenson e Jack London raccontando un film che lui stesso definisce d’avventura, «un’odissea», una storia di formazione. La fama, il successo, i soldi e «i bianchi che ci chiederanno l’autografo» sono una tentazione troppo grande per un ragazzo che coccola la passione per la musica.
«Tutti partono», si lamenta Seydou con sua madre che piange perché sa che cosa significa andare per mare a cercare fortuna e quanto dolore riempirà quel bagaglio. Ma la voce della coscienza, si scontra contro l'incoscienza della giovinezza che finirà in un orizzonte di polvere. Il viaggio nell’anima di Garrone è tanto, tanto vicino a Pinocchio, forse più della trasposizione che il regista fece della fiaba di Collodi qualche anno fa. Nel ventre di una balena che ha le sbarre arrugginite di una prigione libica, riposa la sofferenza che spegne il sorriso di Seydou, quando capisce che l’inferno era molto più vicino del Paradiso dei burattini, caldo come quel deserto in cui affiorano i cadaveri.
«Cosenza mi ha portato fortuna». L'intervista
Salendo i gradini a due a due, Garrone sale sul palco del Citrigno. Senza fronzoli, senza lustrini, senza neanche un’introduzione canonica. Non vuole annunci e nemmeno tappeti rossi, rifugge le liturgie e i cerimoniali. Ha solo fame del suo pubblico, a cui si concede senza risparmiarsi. «Cosenza e questo cinema in particolare, hanno portato fortuna al film perché, circa un’oretta fa, abbiamo saputo che sarà quello italiano candidato all’Oscar».
Garrone, una notizia che permette di sognare in grande.
«Ci riempie di gioia e siamo orgogliosi di poter rappresentare l’Italia agli Oscar. Faremo del nostro meglio per arrivare il più avanti possibile. Siamo fiduciosi che il film possa toccare anche il cuore degli americani».
Quando De Seta presentò fuori concorso a Venezia “Lettere dal Sahara”, disse che il cinema deve avere una funzione sociale, è d’accordo?
«Credo sia implicito. Io quando scelgo di raccontare una storia, di solito, sono portato a fare una riflessione sugli uomini e la condizione umana, e creare un legame profondo con i personaggi che racconto. Non li giudico, cerco di stare sempre accanto a loro, però li devo amare. L’uomo è sempre al centro delle mie storie. Di conseguenza, spesso, le storie ti portano ad avere più piani di lettura. In questo film emerge una ingiustizia profonda: c’è qualcuno che può viaggiare liberamente e chi invece rischia la vita per farlo. Questa la trovo una grave violazione dei diritti umani».
È vero che stava pensando alle Metamorfosi di Ovidio per il prossimo film?
«Beh, mi stavano affascinando, è vero, ma ora si sono un po’ allontanate».
Lei è uno dei pochi registi italiani che sa maneggiare con cura l’arte del sogno, del fantastico, del realismo magico. In questo film se ne sente un soffio.
«Ci sono dei momenti più onirici, sì, ma servono a raccontare l’anima del personaggio e le sue ferite. Sono attimi che servono a capire dei traumi, quindi sono sempre e comunque funzionali al racconto».
C’è questa immagine, nel deserto, che rievoca le tele con i personaggi “fluttuanti” di Chagall, non è un caso.
Sorride (ndr)
«La mia vena antica ogni tanto ritorna, sarà perché forse prima di diventare regista ero un pittore».