VIDEO | Il regista originario del Catanzarese nella città dei bruzi ha raccontato com'è nata l'idea della pellicola ambientata durante la Prima guerra mondiale
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Dolcezza e rabbia, compassione e orgoglio, la maglia metallica della guerra che copre tutto e annulla la pietà. Gianni Amelio già a Venezia era apparso raggiante, il suo ultimo film “Campo di Battaglia” (attualmente in sala) è quello che sognava di fare da anni e il suo protagonista, Alessandro Borghi, ha espresso a più riprese assoluta gratitudine per il ruolo del medico che non si piega alle logiche militari del sacrificio.
Ieri a Cosenza il regista di origini catanzaresi ha presentato l’opera al cinema Citrigno e poi ha incontrato il pubblico, a fine proiezione, per raccogliere impressioni e giudizi. Tratto dal romanzo di Carlo Patriarca "La sfida" (Neri Pozza), il film - che è nella lista dei film italiani in corsa per la candidatura all'Oscar - racconta di due medici militari, amici d'infanzia: il primo è integerrimo e invita infermieri e assistenti a non avere pietà dei feriti perché in mezzo ai prodi si nascondono anche i vigliacchi, pronti ad atti di autolesionismo pur di essere congedati; l'altro, al contrario, aiuta i malati ad aggravarsi per poterli rispedire a casa.
«Le guerre sono intorno a noi: ci addolorano e ci preoccupano. La nostra sensibilità ci porta verso la vita e non verso la morte e la guerra è una fabbrica di morte che nasce da dittature che nulla hanno a che fare col concetto di patria» ha detto il regista dal palco del Citrigno.
Nel film appare anche un soldato calabrese. Mentre è sul letto di morte il militare chiede di scrivere una lettera al prete che gli aveva insegnato le preghiere perché, tra atroci sofferenze, lui ora vorrebbe solo bestemmiare.
«Il suo è un grido di rivolta - ci racconta il regista -. È capitato che sia un calabrese, mio nipote, che ha il mio stesso cognome, a interpretare la parte. C’è anche un frammento di ricordo personale di quando da piccolo andavo al catechismo. Ho immaginato nel film un calabrese o un meridionale, catapultato nel nord Italia, a una distanza siderale dalla sua casa, che parlasse con semplicità e con il sospetto di non essere capito, perché parlava dialetto».
Riflettendo sulla propria esperienza di vita ha aggiunto: «Io ho imparato l'italiano a 13 anni. Prima non dicevo più di due o tre parole, parlavo solo in dialetto. Poi mi sono iscritto a scuola a Catanzaro e tutto è cambiato e a 19 anni sono partito per Roma».
«Ci sono troppe guerre e il senso di impotenza che proviamo nel non poterle fermare è forte. Oggi in Ucraina e a Gaza, assistiamo a uno scenario di morte, a una strage di innocenti. Anche il nostro Mediterraneo è diventato un campo di battaglia. La prima guerra mondiale non fu una guerra di difesa, ma una guerra decisa dall'alto per prestigio, e costò la vita a centinaia di migliaia di innocenti».