Spinge l’elettore non a votare il meglio, ma a votare contro. Un approccio che depotenzia il pluralismo democratico e rivela scarsa fiducia nella propria proposta politica
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Secondo il dizionario la definizione del cosiddetto voto utile è la seguente: nel sistema elettorale maggioritario, voto dato al candidato che si ritiene possa vincere, invece che al candidato più gradito. Insomma, da quando i sistemi elettorali nel nostro paese hanno svoltato verso il maggioritario (nel caso della regione ci troviamo di fronte ad un sistema maggioritario spinto, vinche chi prende un voto più) in molti sono ancora propensi a perorare la tesi secondo la quale il voto ai piccoli partiti toglie voto ai grandi che avrebbero maggiori possibilità di “cambiare” le cose. Una bufala clamorosa. I risultati degli ultimi anni, infatti, hanno dimostrato inequivocabilmente che il “voto utile” è sì utile, ma non per chi lo ha dato.
Enrico Letta, segretario nazionale del Pd, lo ha riproposto ai calabresi per tirare la volata alla dottoressa Amalia Bruni, prima di lui lo aveva già fatto, poco più che un anno fa, Nicola Zingaretti per tirare la volata a Pippo Callipo. In quest’ultimo caso, abbiamo visto come è andata a finire.
La tiritera sul “voto utile” oltre che una sciocchezza, risulta per certi aspetti angosciante e sconvolgente nelle sue implicazioni politiche e democratiche. E, la circostanza che ad evocare il voto utile siano i segretari di un partito che si definisce “democratico”, riformista e di sinistra(?) la dice lunga sullo stato di consapevolezza di questo partito sulla propria identità. La teoria dell’utilità elettorale, infatti, risulta essere un riflesso – nemmeno tanto malcelato – dell’ideologia liberista, che mira semplicemente a imbrigliare l’elettore in un’arena politica costruita essenzialmente sulla logica del tifo.
Il “voto utile” spinge l’elettore non a votare il meglio, ma a votare contro. In sostanza riduce la competizione elettorale quasi ad una scelta “divina”, dove l’elettore decide chi deve sopravvivere e chi no, riducendo tutto ad una sorta di appello: non votatemi perché propongo programmi migliori e più convincenti, nell’interesse della regione, ma votatemi perché altrimenti vince il mio avversario. In sostanza, la logica di proporre il meno peggio davanti alla completa assenza di proposte politiche alternative all’avversario. Il voto utile finisce per essere il tentativo di convincere l’elettore evocando la paura del concorrente politico, ovvero argomentato sulla sua presunta inconsistenza elettorale, che renderebbe il voto “sprecato”.
Voto utile, dunque è un riflesso dell’ideologia liberista, attraverso il quale viene depotenziato il pluralismo democratico. Il voto utile così va a poggiarsi inevitabilmente su temi marginali, spesso amplificati esageratamente dall’informazione mainstream (fascismo in assenza di fascismo vs. comunismo in assenza di comunismo, scandali, inchieste giudiziarie, allarme razzismo ecc.) con la sola finalità di distrarre dall’annientamento del pluralismo democratico, che spesso rende inconsistenti le scelte politiche del cittadino.
Tra le tante sfaccettature dell’ideologia liberista, il voto utile è una delle più subdole e deleterie per una democrazia compiuta, perché costringe il cittadino a una scelta limitata, sostanzialmente inutile dal punto di vista degli interessi della collettività, ma assai utile dal punto di vista degli interessi dell’oligarchia.
Insomma il voto utile, secondo la oligarchia del Pd calabrese, potrebbe rivelarsi utile solo per lor signori che stanno costruendo il proprio percorso carrieristico in vista delle elezioni politiche. Tutto ciò, in perfetta continuità con le scelte sbagliate del passato da parte delle classi dirigenti romane, le quali, dalla politica, alla pubblica amministrazione hanno sempre dimostrato la radicale e cinica indifferenza ai destini di questa regione.
Si pensi alla sanità per esempio, il teatrino dei commissari governativi è emblematico. Eppure, alcune gigantesche società nazionali di consulenza, da più lustri ormai, continuano a succhiare soldi al sistema sanitario regionale calabrese come un bancomat, il tutto, senza mai risolvere il problema per cui sono pagate. Guarda caso, le stesse società di consulenza, risultano essere tra le finanziatrici delle innumerevoli fondazioni correntizie dei partiti, sia di destra che di sinistra. Ecco perché, forse, bisognerebbe mettere fine alla logica del voto utile, ovvero alla logica “se non è zuppa è pan bagnato”.
Il sistema maggioritario ha aperto il processo della personalizzazione del voto. La caratterizzazione del voto sul leader. Una logica che, in se, ha certamente delle contraddizioni, e tuttavia, contraddizioni o meno, che qui per economia di ragionamento tralasciamo, è evidente che affinché si possa competere con questo tipo di consultazioni c’è bisogno che, i leader che si intendono scegliere, soprattutto a sinistra che con questa pratica del leader hanno ancora evidente disagio, siano attrezzati sia punto di vista politico che da una robusta legittimazione.
Esattamente l’opposto di quello che è avvenuto con la candidata dell’alleanza Pd-M5s. La frammentazione del centrosinistra, infatti, è stata la prova plastica del fallimento delle strategie della dirigenza Pd sulla Calabria in relazione alla costruzione di una leader elettorale all’altezza del momento.
Giuseppe Smorto sulla Repubblica, in poche righe evidenzia la responsabilità e l’ottusità di chi ha catapultato troppo tardi nell’arena politica la scienziata lametina. «Ha iniziato molto tardi a fare campagna elettorale. Dietro di lei non c'è un partito, ma quel che resta delle correnti. Qualunque risultato ottenga, sarà merito suo. I pasticci del suo Pd sono giornalieri», chiosa Smorto. Impeccabile.
Di fronte a tutto ciò, dunque, l’appello al voto utile di Zingaretti e Letta, assume caratteri grotteschi. La responsabilità dei gruppi dirigenti democrat, infatti, rivela l’incapacità a comprendere la fase che si sta vivendo nella stragrande maggioranza delle democrazie occidentali e cioè mi riferisco a quello che Mauro Calise, docente di Scienza politica presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli descrive come la «figura del “voto populistico” o di quello “carismatico”, molto rilevanti in numerose democrazie occidentali contemporanee. […] La personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, prodotta da un uso frequente e strumentale della televisione e dei new media e conseguente alla crisi delle ideologie post-guerra fredda, hanno comportato la crisi e il superamento del partito di massa, favorendo la nascita di “partiti personali”, incentrati sul ruolo del leader e sovente tendenti a cavalcare il malcontento popolare in maniera populistica».
Partendo dalla concezione del voto utile, ho cercato, chiaramente schematicamente e, per certi aspetti semplicisticamente, di spiegare in queste poche righe una icastica – e impietosa – rappresentazione di cosa è veramente successo nel rapporto tra elettorato e partiti nella lunga e ancora incompiuta transizione italiana. Nonché delle difficoltà della sinistra ad adattarsi a queste tendenze. L’alternativa, rimarrebbe solo quella di battersi per ritornare al proporzionale. Ma ci sono le condizioni?
Scrive Luigi De Gregorio, ricercatore presso l'Università della Tuscia di Viterbo: «La nuova categoria di voto, rappresenta un nuovo tipo di voto di appartenenza, non più al partito, bensì al leader e questo spiegherebbe, passando dalla teoria ai dati empirici, il perché della stabilità degli orientamenti di voto dell’elettorato italiano, che è passato da un voto ideologizzato (party oriented) a un voto carismatico (leader oriented), anziché muoversi verso il voto di opinione (issue oriented), come il sistema maggioritario e la meccanica bipolare prescriverebbero. Il voto leader-oriented spinge la classe politica italiana a creare nuovi partiti, per far nascere nuove figure di leaders in grado di attrarre il consenso degli elettori».
In passato sono mancati i tentativi in questa direzione. Le scelte leaderistiche – come quelle di Rutelli o Veltroni, Vendola e poi Renzi – potrebbero far pensare a una conversione, o almeno accettazione, del ruolo della personalità nel richiamo verso l’elettorato. In realtà, a sinistra si fa ancora fatica a penetrare le caratteristiche della nuova arena elettorale. In gioco non c’è una evoluzione in chiave personalistica del (solito) voto di opinione, una sorta di scelta razionale light, meno issue centered e più candidate oriented, ma comunque da giocarsi attraverso, e all’interno, della cerchia mediatica, con un po’ di lifting alle liste e un pressing buonista sull’immagine.
Tutto questo può anche aiutare a bucare lo schermo, però non basta per sfondare nei cuori e nello stomaco dell’elettorato. Ha ragione Di Gregorio, quando sostiene che quello che è in gioco nel voto populistico è un sentimento identitario, un richiamo capace di innestare e sedimentare un rapporto anche di tipo autoritario col leader. È ciò che ne spiega la durata e, al tempo stesso, la tenuta anche sul piano valoriale.
La sinistra, con questo tipo di leadership, continua a trovarsi a disagio, culturale e ideale. Ci sono stati esempi, soprattutto a livello locale, in cui questa miscela ha funzionato. Ma è certo che, nel dibattito pubblico e nel proprio carniere ideologico, la sinistra preferirebbe farne a meno. Solo che, di questo passo, è difficile che si riesca a intercettare – e, soprattutto, a stabilizzare – il consenso di un elettorato che vota meno con la propria testa di quanto ci piacerebbe pensare. Se questa, oggi è l’analisi sul piano nazionale, figuriamoci se non vale ancor di più per la nostra regione.
Appellarsi al voto utile con tutto quello che è successo in Calabria, non solo è grottesco ma è anacronistico. Per coloro che intenderanno esprimere il voto, l’auspicio è che vadano a votare per il candidato più gradito, ma soprattutto per coloro che ritengano i migliori respingendo con decisione sia la logica del “se non è zuppa è pan bagnato”, sia con altrettanta decisione la logica del “o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”.