Da città dell’acciaio a simbolo di devastazione ambientale. Su Netflix la miniserie che racconta la lotta delle madri della cittadina inglese per ottenere giustizia
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Corby è una cittadina di circa 50mila abitanti, situata su 80 chilometri quadrati nel Northamptonshire. Secondo un sondaggio del 2017, è la città più infelice della Gran Bretagna. E non è un caso. Un bambino su cinque vive in completa povertà e il tasso di disoccupazione è tra i più alti del Regno Unito. Ma a rendere la storia di Corby ancora più triste è quello che accadde lì a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, quando il nome di quella città balzò agli onori (o ai disonori) delle cronache. Fu allora che Corby smise di essere un’anonima località inghiottita tra tante e diventò per tutti la “città tossica”, una Terra dei Fuochi, dove migliaia di scozzesi misero radici e molti bambini furono condannati a una vita di sofferenza.
Netflix ha raccontato la sua storia in una miniserie creata da Jack Thorne e diretta da Minkie Spiro, che ripercorre le vicende legate a doppio filo con il sogno interrotto di un rilancio economico trasformato dalla noncuranza e dall’approssimazione, in un disastro.
Facciamo un passo indietro.
Agli inizi del Novecento nacque in Gran Bretagna la Stewarts & Lloyds, un’azienda che si occupava della produzione di tubi in ferro. Nel 1932 l’acciaieria decise di trasferirsi a Corby e l’anno seguente la popolazione salutò con entusiasmo l’accensione del primo degli altiforni della fabbrica. La cittadina per trent’anni cambiò volto, fu un esempio di “industrializzazione”, di progresso e conobbe un inaspettato benessere, almeno fino al 1979 quando la favola del benessere d’acciaio finì in modo repentino.
La Stewarts & Lloyds, dopo la nazionalizzazione, conobbe una crisi da cui non uscì più. Il ferro locale era diventato troppo costoso e meno pregiato di prima, e nel 1980, dopo uno sciopero e quasi 2,5 milioni di tonnellate di acciaio prodotto in quarant’anni, le porte della fabbrica vennero sprangate per sempre e 11mila operai si trovarono da un giorno all’altro senza lavoro e senza uno straccio di prospettiva.
Corby restò a guardare migliaia di famiglie ridotte sul lastrico e quel gigante di ferro immerso in una melma di rifiuti tossici lasciati a macerare sotto il sole. I resti dell’acciaieria continuarono ad arrugginirsi, mentre Corby colava a picco. Il consiglio comunale, agli inizi degli anni Ottanta, investì molti soldi nella bonifica dei terreni intorno alla ex acciaieria, ma non fece che peggiorare le cose.
Ed è a questo punto della storia che tutto precipita.
Dal 1984 al 1999, i camion caricarono e scaricarono materiale tossico senza rispettare alcuna precauzione. In quella sabbia sottile, che si alzava sollevando nuvole rossastre, c’era un altissimo concentrato di metalli pesanti: zinco, arsenico, cadmio.
I mezzi di trasporto non sono telonati, le ruote non vengono mai ripulite e così nel passaggio dalla fabbrica alle discariche, le polveri si depositano ovunque: sui vetri delle case, sui tettucci delle auto, sulla pelle degli abitanti di Corby ignari di respirare veleno ogni giorno per anni, e soprattutto nei polmoni delle donne incinte, che a causa delle polveri tossiche, danno alla luce figli con terribili malformazioni.
Gli organi di molti feti non riescono a formarsi e i bimbi muoiono poco dopo la nascita; altri devono convivere senza una mano, un piede o un braccio. Ma ad accorgersi che non sono casi isolati, parte di una statistica ordinaria, sono le madri di Corby. Le donne si incontrano al parco, nei bar, guardano l’una nella carrozzina dell’altra, e capiscono che non è normale che così tanti bambini siano nati con quelle deformità. Fanno squadra, vogliono giustizia e si rivolgono a un avvocato per mettere alla sbarra i colpevoli di quello scempio.
Ci vorranno molti anni e molte sofferenze, però, prima arrivare ad una sentenza e anche se le colpe verranno riconosciute in un indennizzo, nessuno pagherà davvero.