Il seminterrato è buio. Sempre. Niente neon, plafoniere, faretti, candelabri, una finestrella basculante. Nell'aria solo una lieve nebbiolina perenne, più che da film horror da guasto alla caldaia (che poi, che differenza c'è?). Il nostro protagonista (o la protagonista) scende e chiede: «C’è nessuno?», con la torcia da cantiere in mano e il terrore negli occhi anche se sta andando solo a recuperare una conserva di olive. Mai che qualcuno in quello spazio ci ricavi una tavernetta all'italiana, un angolo bar illuminato a giorno, sistemi una lampada ad arco finto Castiglioni, un divanetto Ikea arancione, ci chiuda dentro i gemelli in affari Jonathan e Drew perché ci cavino almeno una sala ping pong con caminetto senza sforare il budget. No. Tutto deve essere scuro, polveroso, pericoloso e inadatto anche per sistemarci una lavatrice a incasso (infatti anche in case di milionari, si va a fare il bucato nelle lavanderie a gettoni).

That's all folks

È il cinema americano, bellezza. È la declinazione di un folklore da script che esiste solo guardando film in cui quasi tutte le case sono ville, affondate in zone suburbane piene di garage e barbecue e bermuda e confezioni da sei di birra gelata. Il numero di telefono che inizia per 555- serve per contattare chiunque, da qualunque zona, e nell'era dei cellulari ultrasmart, nel Nuovo Continente la segreteria telefonica del numero fisso è il modo migliore per comunicare (così come il mitologico cercapersone negli ospedali). Slang per noi non traducibili, ci hanno abituato a espressioni che nella vita vera non sentiremo mai. Nei tribunali, anche quelli periferici, c'è il parquet, la perlinatura alle pareti, un Vostro Onore a cui fare «obiezione» (quasi sempre «respinta»), un avvocato che chiede di avvicinarsi al banco e un giudice che risponde: «La giuria non tenga conto delle dichiarazioni del teste».

Ehy, campione

Se di notte sbattono porte, si accendono luci, o qualcuno fa a pezzi il cane e uno spirito sussurra all'orecchio: «Ti ucciderò all’albaaa», il buon padre di famiglia non prende tutti in braccio e si pianta nel primo motel (di quelli con le insegne rotte sulla statale 5432567) o dalla suocera in Vermont, ma si impunta e dice «no Patricia, questa casa è nostra e da qui non ce ne andiamo» mentre ingolla a cena aranciata per annaffiare lo sfornato di piselli. Il figlio più piccolo, posseduto da una comitiva di demoni in vacanza, frigge in padella il braccio del vicino, ma il capo famiglia gli gira il cappellino dall'altra parte e lo rassicura: «Ehy, campione, andrà tutto bene». Un’ora e mezza dopo, sui titoli di coda, non c’è più nessuno (vivo) a cui ripeterlo.

Una bella casa da tredici piani

Altro canovaccio da sempre in gran voga. La scena si apre sul quadretto di una tranquilla famiglia americana pronta a traslocare in una nuova casa. Lui è un creativo pubblicitario (o scrittore), lei fa l’agente immobiliare part-time e nel tempo libero gira per casa in canotta bianca e slip. Vogliono cambiare aria e per questo mettono radici in un paesino dove l'unica bottega decente è un market che vende latte a bidoni. Il nuovo nido è un villone di tredici piani con un giardino di venti ettari (che solo per pulire tutto servono dieci colf e uno stipendio da assessore regionale calabrese), che cade a pezzi. Loro arrivano e fanno tutto da soli. Indossano la salopette jeans e si mettono a dipingere le pareti, togliere la moquette, tirare via muri portanti. Tre giorni in tutto. Fatto.

Bancarotta istantanea

Il protagonista, che prima assicurava un’entrata mensile di almeno diecimila dollari, all’improvviso si trova a spasso. Il suo capo, in maniche di camicia, lo convoca nel suo ufficio, gli chiede di sedersi, lui dice che preferisce stare in piedi, e mentre aspetta di ricevere la promozione gli arriva la scudisciata sui denti: «Ehi Tom, questo mese è la terza volta che arrivi tardi a un riunione col grande capo, non ho potuto fare niente per te, sei licenziato» poi, tanto per infierire aggiunge: «Ma guardati, stai uno schifo» gli dice mentre si pulisce la bocca unta dal cibo cinese nel cartone. Dal lunedì al martedì in famiglia si trovano rovinati, senza un soldo neanche per prendere un tramezzino (con burro di noccioline) al distributore. Ieri avevano la Porsche in garage e l'abbonamento al Golf Club, in neanche 24 ore  la banca gli prende tutto, anche le mutande (ma non gli slip della moglie), le cure sanitarie vengono interrotte, gli amici li schifano e tutti finiscono in una roulotte. Non esistono risparmi, investimenti, un salvadanaio con gli spiccioli messi da parte ogni tanto. Niente. Neppure il margine di un mesetto di assestamento viene concesso. Volevi il sogno americano? Ora pedala (ma neanche la bici gli è rimasta).

Federali alle costole e whiskey doppio

Dalle commedie al dramedy, dai thriller agli horror, è mezzo secolo che assistiamo a gente con federali alle costole, a poliziotti chiamati piedipiatti, a psichiatri che diventano strizzacervelli, a ospedali in cui al massimo dell’emergenza si sparano nel paziente 10 cc di qualcosa.  La macchina, nel vialetto, è sempre una station wagon e, dopo il lavoro, il protagonista finisce la giornata in un bar a bere un whiskey («doppio, Jim»), mentre all’angolo del biliardo due cowboy masticano stuzzicadenti e chiedono a chiunque: «Cerchi guai, amico?». No, cerco la toilette.

Dove abiti? Tra 72esima e la 57esima...

«Segua quel taxi» e poi «tenga il resto», altro must. L’appuntamento? All’incrocio tra 56esima e la 7. Perché gli americani di niuiorksiti, sanno a memoria tutti gli incroci, i numeri civici e, soprattutto, gli isolati che rappresentano una zona che ne dista sempre due da dove si vuole andare. Abituati, nella realtà, a subire colpi di frusta micidiali con cerotto caldo per un mese attaccato alla schiena, se un tizio ci tampona al semaforo, o tira una pacca troppo forte sulla spalla, nei film americani agli incroci si vola, le auto iniziano a sbattere contro secchi dell’immondizia, tir, idranti, ma il risultato è che il protagonista, illeso, pensa solo a sterzare per fare inversione a U sull'autostrada a sedici corsie. Il tutto mentre l’auto spicca un salto dalla terraferma a un pontile che si sta richiudendo e quello accanto urla se per caso gli ha dato di volta il cervello.

Il pixel ricampionato

Altro scenario tipico come un’anguria ad agosto. Abbiamo un tizio sospettato di omicidio. Riesce a imbarcarsi con un passaporto falso con la foto di sua mamma incollata con la vinavyl. Il poliziotto all’imbarco guarda lui, la foto, lui, la foto e gli augura «buon viaggio, signore». Insomma quest’uomo, questo fuggitivo, atterra nello sperduto villaggio di Qiabu. Dall’altra parte del pianeta Terra, quelli dell’Fbi, dopo aver analizzato tutti i volti dei miliardi di persone che hanno valicato gli ingressi al Mac Donald's nelle ultime 48 ore mangiando ciambelle, individuano il sospettato che sorseggia the matcha sotto una copertura di paglia tibetana, grazie a un’immagine di una videocamera di sorveglianza di uno spaccio di zafferano. La foto è più che sgranata, è una macchia in mezzo alla sabbia.

«Richardson».

«Signore». 

«Ricampiona l’immagine»
 
Si può conoscere a memoria l’anno di fabbricazione di una Twingo come di una Buick (che è sempre del ’56) ma no, i pixel no, quelli proprio non si possono schiarire. E invece al cinema americano tutto è possibile. Lo schermo può convincerci che due persone che parlano al telefono senza dirsi dove e quando e a che ora, riescano a trovarsi nel mezzo di Central Park, che tutti i figli maschi hanno un soprannome che comprende la J  con punto a seguire (AJ, CJ, JJ ecc...), che la porta sul retro di una casa stellare è spesso una roba mezzo scalcinata ricoperta da una zanzariera che non protegge neanche dagli spifferi figurarsi dai serial killer. Eppure ci piace credere e rivalutare il nostro appartamento semplice e senza seminterrato.