Difficile sintetizzare in poche battute la lunghissima carriera politica di Mario Tassone. A lungo parlamentare, più volte segretario regionale della Dc, fondatore del Cdu prima e della Casa delle libertà poi, sottosegretario nei governi Fanfani V, Craxi I e Craxi II, Fanfani VI, viceministro nei governi Berlusconi I e II. Tanti impegni, sempre dalla stessa parte, che lui ricorda con precisione enciclopedica citando anni e mesi esatti.

Tassone come ha iniziato a fare politica?
«Prima dell’impegno politico c’è stato un impegno costante nell’associazionismo cattolico in tutte le articolazioni dei movimenti giovanili dell’epoca. Lo sbocco verso la Democrazia Cristiana fu la naturale conseguenza di un impegno e un modo di vivere».

In casa eravate tutti democristiani?
«No, anzi. Mio padre, che era un fine intellettuale, era socialista, dirigente sindacale».

E come prese la sua adesione alla Dc?
«Bene, ovviamente. Lui rispettava moltissimo la fede di mia madre che è stata quella che mi ha formato. Seguendo lei e il suo impegno ho avuto la mia formazione. Quindi mio padre capiva il mio slancio e lo approvava. Fra l’altro si avvicinò alla fede molti anni dopo».

Ci parli del suo primo impegno istituzionale…
«Bè quello venne molti anni dopo. All’epoca c’erano i partiti, si faceva la gavetta, mica come oggi che basta essere nelle grazie del capo politico e si fa carriera. Oggi nessuno ha interesse a mantenere rapporti col territorio ma solo con Roma, come si fa allora a far partecipare la gente? L’esperienza nel partito prima che nelle istituzioni era la regola per la Dc e non solo. I dibattiti nelle sezioni, i congressi erano cose che ti formavano. Anche per essere candidato bisognava meritarselo, mica avveniva per cooptazione come oggi. Così ho fatto tutta la trafila prima nel movimento giovanile di cui diventai anche delegato nazionale e poi nel partito vero e proprio, arrivando a ricoprire la carica di segretario regionale».

Cosa ricorda di quel periodo?
«La prima cosa è che due giorni dopo mi ritrovai l’ufficio invaso dai forestali che chiedevano la stabilizzazione come si dice oggi. Un problema che poi riuscì a risolvere molti anni dopo prevedendo un apposito capitolo per questi lavoratori facendoli uscire dal precariato».

E a livello politico…
«Fu un periodo molto intenso perché era appena partito il regionalismo con Guarasci primo presidente della giunta regionale calabrese. Purtroppo morì qualche tempo dopo in un terribile incidente stradale e c’era il problema della sua successione politica e individuiamo in Aldo Ferrara la persona giusta. La storia più interessante, però, venne nella seconda legislatura che vide presidente Perugini grazie anche ad un accordo programmatico con il Pci. Incontrai Franco Ambrogio e Martorelli e discutemmo serate intere intorno al programma. Alla fine decisero per un appoggio esterno senza ovviamente entrare in giunta. Nacque però una commissione speciale, la commissione programma, presieduta proprio dai comunisti, come una sorta di organo di garanzia di rispetto degli accordi».

Fu esperienza pilota in Italia?
«In realtà iniziavano a formarsi giunte di centrosinistra, ma non con i comunisti. Si può dire che il compromesso storico l’abbiamo inventato noi in Calabria. Ricordo che il segretario nazionale della Dc del tempo, Fanfani, non era affatto d’accordo. Allora gli dissi: si nomini commissario del partito e venga lei a risolvere la situazione. Ovviamente non lo fece e l’operazione andò in porto».

Il regionalismo, invece, ancora arranca. Perché non ha funzionato?
«Guardi in Calabria partì con una straordinaria partecipazione e anche molte tensioni come si ricorderà. Guarasci ricordo che era uno dei più attivi nel sostenere i vantaggi di questa nuova istituzione che avrebbe dovuto avvicinare la politica alla gente. All’epoca Roma era davvero lontana. Poi non so cosa sia successo… per me il problema è stata l’eccessiva burocratizzazione dell’ente. Abbiamo sbagliato nel riempire la Regione di ex art. 285 ovvero una serie di precari dei Comuni che sono stati trasferiti in massa alla Regione. Alla fine col passare del tempo e l’indebolimento della politica, la burocrazia ha avuto la meglio. Così come la Regione si è fatta tentare dalla gestione abbandonando l’idea originale di un ente che doveva legiferare e controllare, non gestire».

In Calabria però si ha l’impressione di essere fermi…
«Anche qui dobbiamo considerare che il Governo ha aperto la stagione dei commissariamenti. Non c’è settore strategico in cui la Calabria non sia stata commissariata: rifiuti, dissesto idrogeologico, sanità. L’ultimo poi ha qualcosa di quasi eversivo. Una situazione eccezionale come il commissariamento che dura dodici anni è un non senso istituzionale, che però ha prodotto la situazione che tutti conosciamo: il debito non è diminuito, i servizi sono arretrati. Noi poi abbiamo conosciuto la dolorosa stagione del dopo Santelli con un presidente non eletto in consiglio, che ha governato per mesi in una situazione di precariato assoluto. Ovviamente ha fatto quel che poteva, ma è chiaro che è stata una situazione più unica che rara. Aggiungo poi il terribile errore dell’elezione diretta del presidente della giunta».

Non le piace?
«Certo che no. Se un presidente o un sindaco non funziona perché dobbiamo tenercelo per forza? Così si svilisce il ruolo dell’assemblea elettiva che è sempre sotto ricatto: se non fate come dico io si va tutti a casa. Ma perché non prevedere istituti come la sfiducia costruttiva o altro? In una situazione del genere che dibattito politico può venire fuori?».

E se le dicessi che la Dc è fra i responsabili dello stato di cose della Calabria?
«Le direi che sbaglia e anche di grosso. La Dc è stato l’unico partito riformista che abbiamo avuto in Italia. Basti pensare cosa è stata la Cassa per il mezzogiorno o l’Opera Sila o la riforma della casa. Gran parte del pensiero meridionalista ha quelle radici lì. Tutte grandi riforme che nessuno ha mai più realizzato, che sono state poi maltrattate da chi è venuto dopo. La Dc non è mai stato un partito conservatore bensì un partito progressista e riformista: le grandi riforme quelle vere, le abbiamo fatte noi».

Eppure adesso i cattolici sono senza casa politica
«Si, ci sono dei tentativi di spartirsi le spoglie, ma ad oggi i cattolici non hanno rappresentanza. Credo che fu un grande errore eliminare un partito come la Dc durante gli anni terribili di Tangentopoli con una manovra guidata da una certa magistratura e pezzi di sinistra che speravano in una alternanza. Ancora peggio fece Martinazzoli quando decise di liquidare il partito con un colpo di spugna senza nemmeno un dibattito interno. Occhetto si sentiva già a Palazzo Chigi, poi è arrivato Berlusconi e sappiamo tutti com’è andata a finire».

Lei è stato membro del Governo Berlusconi I e II, che ricordi ha del Cavaliere?
«Tutti positivi. Quando venivo chiamato in Consiglio dei Ministri mi colpiva sempre la sua attenzione ai dettagli e le sue incursioni per alleggerire l’atmosfera con le sue proverbiali battute. L’atmosfera era sempre molto amabile. A me raccontava spesso della sua zia suora e del suo impegno, da giovanissimo, nella Dc quando faceva anche attacchinaggio. Mi parlò anche del suo tentativo di trovare un accordo con il Ppi, ma Martinazzoli rifiutò e preferì fare un accordo col Patto Segni, il famoso patto per l’Italia che non ebbe il successo sperato».

Chiudiamo con un’autocritica. Di cosa si è pentito nella sua lunga carriera politica?
«Dicembre 2002 al congresso dell’Udc alla Fiera di Roma sarei dovuto diventare segretario del partito. Incontrai la ferma opposizione di Pierferdinando Casini e alla fine, sbagliando, decisi di fare un passo indietro a favore di Lorenzo Cesa. Alla guida di un partito al 7% avremmo forse potuto cambiare qualcosa in Italia».