Il 28 giugno 1946 l’Assemblea costituente elesse a larghissima maggioranza il primo presidente della Repubblica, con un margine più ampio del quorum richiesto. Rinunciò allo stipendio e il suo vecchio soprabito fu simbolo di un modo di vivere parco e quasi spartano (ASCOLTA L'AUDIO)
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Il primo Presidente della Repubblica fu Enrico De Nicola, capo dello Stato provvisorio eletto dalla Costituente fino all’approvazione della Carta Costituzionale e alle relative elezioni politiche che si tennero nell’aprile del 1948. Il contesto politico entro il quale è stato eletto De Nicola era un contesto estremamente complesso, all’indomani del referendum che decise le sorti della Monarchia. Un referendum che a causa di alcuni giorni di indecisione della Cassazione sulla proclamazione dei dati elettorali produsse una forte tensione tra la moritura Corona Sabauda e il presidente del consiglio Alcide De Gasperi.
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, il Consiglio dei ministri approva una dichiarazione in cui «le funzioni» di capo dello Stato sono «temporaneamente» trasferite ope legis al capo del governo, De Gasperi, in attesa di un responso definitivo della Corte di Cassazione sul risultato referendario. La situazione è dominata dalla più totale incertezza. La tensione era altissima e i rischi di una guerra civile fratricida dietro l’angolo.
Umberto II, ormai esautorato, decide di partire in aereo per Lisbona, non senza lanciare un proclama al popolo italiano in cui accusa il governo di aver compiuto «un atto rivoluzionario», «in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura». Ma il rischio di un conflitto, che avrebbe potuto essere cruento, è scongiurato. L’elezione del primo capo di stato del paese, tuttavia, non poteva non tener conto della delicatezza della situazione. La partita per la scelta del candidato passa attraverso diverse fasi. Inizialmente, i nomi fatti sono quasi tutti di esponenti dell’età liberale pre-fascista: Bonomi, Nitti, Orlando e Sforza. Qualcuno avanza addirittura la candidatura del maestro Arturo Toscanini, illustre esule antifascista. C’è poi un tentativo, alquanto ingenuo, di Nenni e Romita di offrire a De Gasperi la candidatura, con la palese speranza di ottenere in cambio la presidenza del Consiglio, ma il «no» dello statista trentino è perentorio e immediato. Curiose le similitudini di chi oggi offre il Quirinale a Draghi per avere sgombro palazzo Chigi (sic).
Quindi i tre principali partiti concordano sul fatto che il nuovo presidente debba avere almeno due caratteristiche peculiari: essere di «origine meridionale», per evitare che il Mezzogiorno consideri come un’imposizione il mutamento istituzionale, ed essere gradito all’elettorato monarchico, deluso dal responso delle urne. L’esigenza principale, infatti, è di rafforzare il filo di quella pacificazione nazionale duramente messa a repentaglio dal conflitto sul voto referendario.
Andare allo scontro in aula non è possibile: l'Italia non può permettersi una divisione già agli albori della Repubblica. Togliatti lo sa bene e acconsente a incontrare De Gasperi insieme ai socialisti Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. I quattro entrano in una stanza di Montecitorio e ne escono un'ora dopo con l'accordo in tasca su De Nicola: è un galantuomo, è liberale (quindi non fa ombra a nessuno dei partiti maggiori) è meridionale (così si riequilibra la geografia dei vertici dello Stato, dove sono quasi tutti del Nord) ed è monarchico (così i dieci milioni di italiani che hanno votato per il re al referendum del 2 giugno si sentiranno rappresentati).
Secondo i più accreditati retroscenisti dell’epoca è Palmiro Togliatti ad avanzare la candidatura di Enrico De Nicola, non dimentico delle benemerenze che questi si era conquistato con la soluzione compromissoria della Luogotenenza, che aveva spianato la strada alla «svolta di Salerno» e alla partecipazione comunista al governo Badoglio. De Nicola infatti fu colui che convinse Vittorio Emanuele III ad accettare la luogotenenza in favore del figlio Umberto dopo l’armistizio.
Deciso il nome non c'è che da comunicare la notizia al diretto interessato, che è a casa sua a Torre del Greco. Ma c'è un problema: De Nicola è noto per la sua indecisione nell'accettare gli incarichi. Il prefetto che va a comunicargli la notizia riceve come risposta un "no grazie". Poi comincia il tira e molla. De Nicola ci pensa e ci ripensa, pone come condizione che la maggioranza che lo eleggerà sia praticamente unanime. Lo stallo si protrae per qualche giorno e induce il Giornale d'Italia a lanciare un accorato appello: "Onorevole De Nicola decida di decidere se accetta di accettare!".
È il pomeriggio del 28 giugno 1946 quando l’Assemblea lo elegge a larghissima maggioranza (396 voti su 504), con un margine più ampio del quorum richiesto dei tre quinti degli aventi diritto al voto. De Nicola accetta e telegrafa a Saragat, allora presidente della Costituente: «Mi inchino con animo reverente e commosso di fronte alla volontà sovrana dell’Assemblea costituente».
De Nicola arriva a Roma soltanto il 1° luglio 1946, quasi in incognito, con una piccola valigia di cuoio, accompagnato, a bordo di una Lancia appartenente ai Savoia, dall’autista di Umberto II, Pini. De Nicola fa subito sapere che non intende trasferirsi al Quirinale (per rispetto ovvero per «delicatezza» nei confronti dei papi e dei re che vi avevano dimorato), dopo un breve soggiorno a Montecitorio sceglie come residenza un edificio prossimo al Senato, Palazzo Giustiniani, detto anche la «Tomba» perché non ci batte mai il sole. Rinuncerà allo stipendio e dovette dare fondo ai suoi risparmi per mantenersi. Il celebre cappotto rivoltato che lo accompagnerà in varie missioni diventerà quasi un simbolo di questo modo spartano di vita: immagine quasi surreale di un’Italia agli antipodi di quella di settant’anni dopo.