La fine del settennato di Einaudi coincide con l’inizio dell’epoca che Flaiano definì quella della “repubblica delle pere indivise”. L’elezione del terzo presidente avviene attraverso l’aggregazione di forze di un’area parlamentare diversa dalla maggioranza di governo
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Nel pezzo precedente sulla storia della elezione dei Presidenti della Rebubblica italiana, vi abbiamo raccontato di Luigi Einaudi: il Presidente monarchico e uomo di Banca d’Italia
Il contesto
Einaudi fu il Presidente colto e con il culto della valorizzazione del merito e della competenza. Sua la famosa: “conoscere per deliberare”. Einaudi fu anche un presidente «interventista». Firmò nel settennato ben 11.839 provvedimenti. Impose il rispetto delle forme anche nelle consultazioni, stabilendo che fossero i capigruppo e non i segretari di partito a parteciparvi. Volle sottolineare le sue prerogative in tutti gli atti in cui gli era consentito intervenire: nomina dei senatori a vita, nomina dei giudici della Corte costituzionale, scioglimento delle Camere, diritto di messaggio e rinvio delle leggi alle Camere per un riesame. Più volte cercarono di contenere e ridimensionare il potere relativamente a queste prerogative. Il parlamento aveva cercato anche di condizionare il potere di nomina dei senatori a vita. Einaudi si oppose ed ebbe partita vinta. Nel corso degli anni di presidenza eccezionale è il numero degli argomenti su cui giorno per giorno Einaudi si pronunzia con grande competenza. Non c’è aspetto della vita amministrativa, culturale e sociale sul quale non intervenga con pareri meditati e documentatissimi sugli argomenti più disparati. Nessun presidente dopo di lui dimostrerà tanta passione e tanta competenza per i problemi concreti del paese, ma tutto questo attivismo e tutta questa conoscenza non producevano evidenti risultati. Le sue «prediche» rimanevano spesso senza risposta e i suoi interventi senza seguito.
A parte De Gasperi, che di quando in quando lo interrogava per analisi e pareri, a Einaudi mancavano gli interlocutori. Sostanzialmente, pur nell’ossequio e nel rispetto generali, anche per una sua congenita timidezza, il presidente rimaneva un isolato. Popolare tra la gente comune, che ne apprezzava la modestia e ne intuiva le qualità umane, restava lontano dalle élites. Einaudi accolse l’invito di trasferirsi al Quirinale. Il presidente non andrà mai all’estero in visita ufficiale (tranne una visita in Vaticano) e non coltiverà i rapporti con i grandi protagonisti della politica europea e americana di allora. Il professor Einaudi fu il primo presidente che inaugurò l’era post De Gasperi al governo, dopo la sconfitta sulla della legge truffa del 53. Il successore di dello statista democristiano fu un governo che possiamo definire come il primo governo del Presidente, quello di Giuseppe Pella, ma la gestione della crisi Trieste costrinse De Gasperi e la Dc a prendere le distanze da quel governo e il 4 gennaio del 54 rassegnò le dimissioni. Fu molto probamente uno delle circostanze che mise fuori gioco il prof. Einaudi dalla corsa per un secondo mandato, anche se il Presidente lo avrebbe desiderato.
Tra l’altro nell’agosto del 54 veniva a mancare Alcide De Gasperi con il quale aveva un rapporto intenso e collaborativo, è probabile che Einaudi non si sentisse più il rappresentante di quella maggioranza che lo aveva eletto, specie dopo che ne era scomparso il leader. Ennio Flaiano in un articolo del 1970 raccontò un aneddoto accaduto durante una cena alla quale era stato invitato dal Presidente, al momento della frutta –raccontò il grande sceneggiatore e critico cinematografico- il presidente notò una pera eccessivamente grossa, poi sospirò: «Io» – disse «prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?» «Io Presidente», disse Flaiano alzando una mano per farsi vedere, come a scuola». Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto. Con la fine del settennato di Einaudi, fu proprio Flaiano a commentare: «Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise».
L’elezione di Gronchi
Scartata l’ipotesi di un «Einaudi-bis» (appoggiato soltanto dai liberali e dai socialdemocratici), Fanfani, segretario della Dc, – sostenuto dal presidente del Consiglio Scelba – punta su Cesare Merzagora, presidente del Senato eletto fra gli indipendenti della Dc: una personalità moderata gradita ai laici e soprattutto al mondo imprenditoriale. Ma ben presto il segretario del partito deve accorgersi che i suoi calcoli sono destinati a fallire, così come erano falliti sette anni prima quelli che avevano spinto De Gasperi a puntare sulla candidatura di Carlo Sforza come successore di De Nicola per poi ripiegare su Einaudi. Questa volta, però, lo smacco finale sarà più grave per il partito di maggioranza relativa. Sin dalla prima votazione la candidatura Merzagora si rivela molto debole, non riesce a decollare poiché manca all’appello una quota consistente di voti democristiani. Dal Presidente del Senato arriva quello che via via si rivelerà il “cardinale Richelieu” della repubblica delle pere indivise: Giulio Andreotti.
Andreotti va da Merzagora e gli fa il seguente discorso: «Presidente, non si candidi e converga invece su Einaudi. Se Einaudi non ce la dovesse fare sarebbe lei il candidato naturale, e tutti la voterebbero». Ma lui non si fece convincere e alla fine anche la destra Dc dice sì alla sua candidatura. Ma era un sì falso. In realtà Andreotti e compagni avevano già deciso di tradire il candidato di Fanfani nel segreto dell'urna.
La svolta si registra quando il gruppo di Concentrazione, guidato da Gonella e Pella, esce allo scoperto e decide di votare per Gronchi anziché per il candidato ufficiale del partito, e ad esso si uniscono tutte le correnti minoritarie della Dc. Nella notte fra il 28 e il 29 aprile 1955, Fanfani deve correre ai ripari per evitare che Gronchi sia eletto con i voti della sinistra (che fino ad allora aveva votato per Parri ma era pronta a cambiare cavallo) e dei «frondisti» Dc. Cerca d’indurre Gronchi a fare un passo indietro, ma incontra un «no» cortese quanto irremovibile. «Ritirare la mia candidatura? Non posso per il semplice fatto che non l’ho mai posta», replica ironicamente Gronchi al segretario del partito.
Si assiste in quelle ore a una incredibile (con il senno di poi) saldatura tra la destra democristiana di Andreotti e la sinistra di Nenni e Togliatti, che decidono di sostenere Gronchi . Comunisti e socialisti vogliono essere determinanti nella scelta del capo dello Stato, ma danno vita a una alleanza paradossale, visto che qualche anno dopo Gronchi sarà l'artefice della nascita del governo Tambroni, appoggiato da Dc e missini. Ma allora , in quell'aprile del 1955, il toscano Gronchi era un fautore dell'apertura a sinistra, era amico del presidente dell'Eni Enrico Mattei e aveva posizioni da neutralista anti-Nato.
L’indomani è lo stesso Gronchi – in qualità di presidente della Camera – a leggere sulle schede il proprio nome, ripetuto per 658 volte al quarto scrutinio. Un’elezione quasi plebiscitaria quanto priva di una precisa fisionomia politica e carica di aspetti apparentemente contraddittori, se non antitetici. Infatti Gronchi viene eletto al Quirinale con i voti dell’intero schieramento di sinistra (comunisti e socialisti), della Dc e, soprattutto, del gruppo trasversale di Concentrazione, composto in gran parte da esponenti della destra del partito, verosimilmente contrari alle «aperture» a sinistra più volte auspicate dallo stesso Gronchi, nonché di molti monarchici e di un certo numero di deputati missini. Il voto comunista, a suo tempo enfatizzato, era un tentativo del Pci di inserirsi in un gioco politico da cui fino ad allora era stato escluso e segnalare un cambiamento in atto del clima internazionale.
Gronchi è il primo cattolico ad occupare la massima carica dello Stato e vi giunge, come si è detto, attraverso l’aggregazione di forze di un’area parlamentare che si sostituisce alla maggioranza di governo. Si verifica, insomma, un’ipotesi che non era stata prevista dai costituenti e che conferisce al neo-eletto un ruolo in qualche misura «oppositivo» alla maggioranza, certamente molto più autonomo di quello dei suoi predecessori. Naturalmente, il significato politico della svolta non sfugge al diretto interessato, che l’aveva favorita, probabilmente anche fingendo di assecondare le richieste di chi gli aveva promesso appoggio in cambio di un successivo spostamento a destra dell’asse politico (riassunto nello slogan «Gronchi al Quirinale, Pella al Viminale» di cui era autore il monarchico Alfredo Covelli, che gli aveva assicurato i voti della destra), salvo poi non tenerne assolutamente conto. Gronchi accoglie impassibile il verdetto, anche se gongola per questa elezione quasi plebiscitaria.
Confiderà in quei giorni ad Indro Montanelli: «Sono contento del modo in cui questa investitura è venuta, voglio dire dalla quasi unanimità che mi rende indipendente da ogni partito e fazione. Tolga dai seicentocinquantotto suffragi che mi sono piovuti addosso quelli della destra: risulto eletto ugualmente con largo margine. Ne tolga quelli delle sinistre e le conseguenze non cambiano. Ciò mi consentirà di essere il capo dello Stato davvero e non il fiduciario di una parte».
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