In Toscana si danno delle regole per aprire un serio discorso sul fine vita. In Calabria invece invece ci lasciamo morire lentamente, ogni giorno, senza nemmeno accorgercene. E il dramma più grande è che non ci importa più
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In Toscana si danno delle regole per aprire un serio discorso sul fine vita. La Toscana, culla di un rinnovato umanesimo che si credeva estinto, ha il coraggio di affrontare la morte con la dignità di chi sa che la vita non è solo un accumulo di giorni, ma una scelta consapevole, una responsabilità morale. E noi? Noi, che ci aggiriamo come spettri tra le macerie di una civiltà che ha rinunciato a interrogarsi su qualsiasi cosa, perfino su cosa significhi vivere.
In Calabria, invece, ci si limita a replicare il rito stanco e degradante del potere familiare, quel gattopardismo grottesco che si traveste da novità per nascondere il nauseante fetore antico della corruzione morale.
Katya Gentile diventa Commissario Provinciale di Cosenza per la Lega Calabria, e le sue parole—impegno, partecipazione, ascolto—non sono altro che ceneri sparse al vento, incapaci di accendere una vera speranza. La politica, in queste terre, è diventata una liturgia vuota, officiata da sacerdoti senza fede, che recitano formule logore per un popolo che non ascolta più.
Ma non è solo la Calabria. L’Italia intera è avvolta in un sudario di indifferenza. Non si tratta più di destra o sinistra, di Nord o Sud, si tratta della morte dell’anima collettiva, della resa definitiva di un popolo che ha barattato la propria dignità con la comodità del silenzio. «I più grandi crimini sono commessi dai silenziosi e dai freddi», scriveva Albert Camus. E noi, col nostro silenzio, siamo complici di questo crimine quotidiano contro la nostra stessa umanità.
La Toscana riflette sulla morte, noi invece evitiamo perfino di riflettere sulla vita. Non abbiamo il coraggio di porci domande scomode, perché sappiamo già che le risposte ci condannerebbero. Abbiamo ridotto la politica a un teatrino di maschere sbiadite, dove il potere passa di mano in mano come una reliquia contaminata, mentre la gente, quella vera, affonda nel fango dell’apatia e della miseria materiale e morale.
Nietzsche diceva: «Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come». Ma qual è il nostro perché? Non c’è più. È stato sacrificato sull’altare del consumismo, della superficialità, della televisione-spazzatura che ci culla in un oblio dolce e mortale. Siamo un popolo che ha scelto la sopravvivenza al posto della vita, la rassegnazione al posto della lotta.
E i media? Pochi resistono, mentre la maggior parte si è trasformata in una nuova casta di sacerdoti laici, intenti a diffondere questo spettacolo indecente senza mai sporcarsi le mani con la verità.
Usando la televisione non per informare, ma per deformare; non per educare, ma per addormentare. Hanno trasformato il cittadino in spettatore, e lo spettatore in un automa che non pensa, non sogna, non desidera altro che il prossimo programma insulso.
Gramsci ci ammoniva: «Odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia». E noi siamo diventati quel peso. La Calabria non è un’eccezione, è lo specchio fedele di un’Italia che ha smesso di credere nel cambiamento. Siamo un Paese che affronta la morte con più coraggio di quanto non affronti la vita stessa.
La Toscana si dà delle regole sul fine vita. Noi, invece, ci lasciamo morire lentamente, ogni giorno, senza nemmeno accorgercene. E il dramma più grande è che non ci importa più.