L’incontro alla Casa Bianca non è stato solo uno scontro verbale tra due leader. È stato un momento cruciale della Storia. Per la prima volta, un ospite politico è stato umiliato pubblicamente dal presidente americano, segnando la fine di un’epoca
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L'incontro tra Trump e Zelensky alla Casa Bianca
L’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca non è stato solo uno scontro verbale tra due leader. È stato un momento cruciale della Storia. Per la prima volta, un ospite politico è stato umiliato pubblicamente dal presidente americano, segnando la fine di un’epoca.
C’era una volta il loft power
Nemmeno ai tempi della Guerra Fredda con Fidel Castro era successo. In quell’unica visita del líder máximo alla Casa Bianca, il presidente Eisenhower evitò di incontrarlo e andò a giocare a golf. Al suo posto mandò il vice Richard Nixon.
Trump non ha solo infranto le regole della diplomazia, ma ha anche calpestato il mito americano costruito con il Piano Marshall, Hollywood e l’egemonia culturale del dopoguerra. In meno di venti minuti, ha strappato interi capitoli di storia e cancellato con un colpo di spugna ottant’anni di soft power.
Gli Stati Uniti hanno perso un altro pilastro della loro mitologia contemporanea. Forse la loro irraggiungibile capacità di attrarre e persuadere senza usare la forza è svanita per sempre. Per decenni ha rappresentato l’arma segreta di Washington, quel dolce potere che – scriveva il suo teorizzatore, il politologo Joseph Nye – rendeva possibile ottenere ciò che si voleva «attraverso l’attrazione piuttosto che con la coercizione».
La Russia esulta. I media russi titolano con soddisfazione: «Il porco è stato schiaffeggiato». Zelensky è stato umiliato da Trump, neanche fosse un concorrente eliminato dal suo vecchio reality show The Apprentice. Lo spettacolo mondiale è stato sgradevole, peggio del video sul futuro immaginario di Gaza creato con l’intelligenza artificiale. Almeno quello non era reale.
American way of life
Negli anni della Guerra Fredda, gli Stati Uniti sapevano che per essere il faro del mondo libero non bastavano la superiorità militare e gli accordi economici. Bisognava costruire un modello attraente. Era la guerra delle idee: democrazia contro oppressione sovietica, capitalismo contro stagnazione comunista.
L’America offriva a tutti la possibilità di aspirare al «sogno americano», uno stile di vita riassunto perfettamente nell’espressione American way of life. Nel dopoguerra, gli Stati Uniti, definiti dalla rivista «Life» come il Paese che si era assunto «l’onere e l’onore di essere la nazione più innovativa, vitale e potente del mondo», si stavano apprestando a vivere il boom economico più lungo e travolgente di sempre. La terra dell’abbondanza (di terra e prodotti), della libera impresa e del libero mercato, plasmò l’immaginario collettivo di molti europei attraverso l’esportazione di dischi musicali e film di Hollywood, che circolarono in Europa insieme ai miliardi del Piano Marshall. Pubblicità e film americani mostravano i nuovi simboli della prosperità economica e sociale: il frigorifero per la torta di mele e la Coca-Cola; i nuovi elettrodomestici per le casalinghe e il televisore acceso nel living room attorno a cui si riuniva una famiglia felice. «In tal modo», scrisse il sociologo ed economista tedesco Werner Sombart nel saggio Perché non c’è il socialismo in America, «tutte le utopie socialiste vennero meno».
Hollywood e il soft power della cultura di massa
Hollywood ha rappresentato il più grande strumento di propaganda della storia moderna. Il cinema è stato «l’arma più forte» nella guerra delle percezioni, dai film sul sogno americano alla promozione della leadership statunitense. Alberto Sordi in “Un americano a Roma” raccontava bene il sogno di vivere in America e incontrare il campione del baseball Joe DiMaggio: «Questo intrepido bimbo prese la mazza e ha sposato Marilina. Se anch’io da bimbo, mami, fossi stato trasferito nel Kansas City… invece so’ stato bloccato dalla scarlattina… Do you remember mami scarlattina?».
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la propaganda hollywoodiana costruì un’America eroica e giusta, pronta a combattere i nemici della libertà. I registi John Ford, William Wyler, John Huston, Frank Capra e George Stevens realizzarono documentari dal titolo Why We Fight, un’operazione di propaganda di cui Winston Churchill disse: «Non ho mai visto o letto una più potente esposizione della nostra causa o della nostra legittima posizione contro la tirannia nazista».
Anche dopo la guerra, il cinema americano continuò a modellare l'immaginario collettivo. Film come “Mr. Smith va a Washington” celebravano la democrazia, “Casablanca” raccontava il coraggio degli Stati Uniti contro il nazismo, e “Uno, due, tre!” di Billy Wilder dimostrava come la Coca-Cola potesse diventare il simbolo della superiorità occidentale sul comunismo.
La diplomazia sportiva
Perfino lo sport fu utilizzato come strumento diplomatico. Il governo americano lo capì fin dai tempi della Guerra Fredda, quando utilizzò atleti e squadre per migliorare la propria immagine mondiale. Due esempi raccontano bene questa volontà di Washington. Nel 1959 il Dipartimento di Stato inviò in Unione Sovietica gli Harlem Globetrotters. Affidò a una squadra di giocolieri afroamericani la missione di incantare e divertire il pubblico sovietico, contribuendo a creare un’immagine positiva degli Stati Uniti in un’epoca di massima tensione. Per assicurarsi il successo della missione, fu ingaggiato addirittura il grande Wilt Chamberlain, ricompensato con un contratto di 50.000 dollari, mentre lo stipendio più alto della lega maggiore era di 20.000. Giocarono una partita contro una rappresentativa sovietica a Mosca al Lenin Central Stadium. Tra il numeroso pubblico di quella sera, c’era anche il presidente Nikita Krusciov.
Il successo dell’operazione spinse gli organizzatori a chiamare alle armi (sportive) la tennista afroamericana Althea Gibson per una tournée di esibizione in alcuni Paesi asiatici. Si sarebbe svolta in Sri Lanka, Thailandia, India e Pakistan, per migliorare l’immagine della nazione accusata da Mosca di razzismo e segregazionismo nei confronti dei neri.
La conclusione dell’egemonia culturale americana
Oggi l’America umilia i suoi alleati, riduce la diplomazia a un gioco di prepotenza e distrugge alleanze faticosamente costruite. L’incontro tra Trump e Zelensky ne è la prova: Washington non ha più bisogno di persuadere, perché ha smesso di avere qualcosa da offrire. E forse, il declino del soft power americano è solo l’inizio. Per decenni, gli Stati Uniti hanno costruito il loro dominio attraverso il consenso, ora cercano di mantenerlo con l’arroganza. Ma la storia insegna che gli imperi non crollano all’improvviso: si logorano, perdono credibilità, diventano vittime della loro stessa presunzione. Un impero del genere è destinato a crollare. Forse non oggi, forse non domani. Ma il processo è iniziato, e nessun soft power potrà fermarlo.