«La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come
farsa». 
Karl Marx non parlava di dazi, ma la sua osservazione si adatta perfettamente alla politica economica appena annunciata da Donald Trump, definita dagli squali di Wall Street: «La più stupida guerra commerciale della storia». 
La minaccia di una guerra commerciale con Canada, Messico e Cina sembra una mossa alquanto spregiudicata, ma non è certo una novità nella storia economica contemporanea. Anche il nostro Paese, alla fine dell’Ottocento, si lanciò in una battaglia tariffaria contro la Francia, il suo principale partner commerciale. Risultato? Una crisi economica che aggravò ancor di più le già drammatiche divisioni
interne
.
Oggi Trump vuole ridisegnare le regole del commercio globale, sfidando i suoi partner con ordini esecutivi e dazi punitivi. Una provocazione simile a quella sferrata dall’Italia di fine Ottocento, quando il governo di Francesco Crispi innescò una guerra tariffaria con la Francia.

L’Italia del protezionismo

Nel 1887 il Regno d’Italia adottò una politica protezionistica per difendere i settori agricoli e le industrie nazionali del grano, del vino e dell’olio, come la Florio e l’Antinori. Pertanto, varò una nuova tariffa doganale che aumentava i dazi su questi prodotti, in risposta ai cugini francesi, rei di aver appena imposto pesanti restrizioni sulle pregiate carni italiane, come la Quadro piemontese. Scoppiava così la «guerra delle tariffe».
Le conseguenze furono devastanti per l’economia italiana, soprattutto per quella del Sud, accentuando in tal modo la nascente «questione meridionale». Non restava che cercare nuovi accordi commerciali con i Paesi dell’Europa centrale, come l’impero austro-ungarico o la Germania di Otto von Bismarck.

Crispi: l’uomo forte dell’Italia

Dietro questa aggressiva politica economica c’era il siciliano Francesco Crispi. Era un ex di tutto, o quasi. Ex borbonico, antiborbonico, massone, mazziniano, garibaldino, repubblicano, monarchico. Era anche l’ex di Rosalia Montmasson, il cui tradimento sotto le lenzuola con Lina Barbagallo gli è costata l’accusa di bigamia. La sua unica fede incrollabile era la patria, e per questo era considerato da Garibaldi come l’unico che lo convinse a intraprendere la spedizione dei Mille: «Voi solo mi incoraggiate ad andare in Sicilia, mentre tutti gli altri me ne dissuadono».
Crispi divenne presidente del Consiglio nel 1887 e si presentò come un leader autoritario, deciso a rafforzare l’Italia sulla scena internazionale e a modernizzarla internamente. Criticò «la debolezza della coscienza nazionale» e sosteneva che per rafforzarsi il Paese avesse bisogno di un grande evento fondativo, «un battesimo di sangue».
Questo pensiero si rifletteva anche nella sua aggressiva visione della politica estera ed economica, come la guerra commerciale con la Francia. Durante una visita a Berlino, il cancelliere di ferro tedesco gli propose un’alleanza antifrancese davanti a un succulento taglio di manzo con un uovo fritto sopra – il suo «piatto diplomatico preferito». Tuttavia, la famigerata bistecca alla Bismarck non sortì gli effetti desiderati. Del resto non era facile trattare con uno come Crispi, il quale – si diceva – «non sembrava mai sul punto di parlare, ma piuttosto di estrarre un paio di revolver».

La lezione della storia

La guerra commerciale con la Francia isolò e indebolì l’Italia. Eppure, le guerre commerciali continuano, come dimostrato in questi giorni dal caso di Trump. La storia insegna che innalzare barriere non sempre protegge un Paese: spesso, lo lascia più vulnerabile. Se c’è una lezione che dovremmo trarre dal passato è che il protezionismo esasperato raramente porta benefici duraturi.
Forse, come diceva Crispi, all’Italia mancava «una grande rivoluzione». Ma di certo, per risolvere i problemi economici, qui o in America, non servono guerre commerciali: servono soluzioni politiche e diplomatiche più lungimiranti di una battaglia a colpi di dazi.