Sulla sorte del bambino in coma irreversibile da aprile si sono espressi i giudici inglesi che hanno accolto la richiesta dei medici di staccare la spina, sostenendo che si trattasse del “migliore interesse” per il dodicenne purtroppo senza speranza di recupero
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A pochi giorni da quanto avvenuto in Svizzera quando la signora Elena, in uno stato di piena capacità di intendere e di volere e in una condizione irrecuperabile di malattia, si è recata in quel Paese dove è possibile, in alcuni casi, mettere fine alle proprie sofferenze, si ripropone un altro “caso” dilemmatico, ma profondamente diverso da quello appena ricordato, seppure entrambi rientrino nella questione dibattuta del fine della vita.
Il primo riguarda una persona libera e consapevole, vinta da una malattia incurabile e che ha ‘deciso di decidere’ sul proprio fine vita prima di essere costretta da un male irreversibile e non controllabile a una fine con sofferenze insopportabili, in condizioni fisiche e mentali indegne per se stessa.
La dolorosa vicenda del piccolo Archie Battersbie è diversa perché riguarda una persona minorenne, non in grado di esprimere alcun consenso.
Quest’ultima vicenda, in particolare, ripropone la falsa dicotomia tra una (non meglio precisata) cultura della morte e una (non meglio precisata) cultura della vita, che, oltre che in Inghilterra, trova espressione pure in Italia. In realtà, siamo dinanzi non a una contrapposizione, quanto piuttosto a un fatto drammatico attorno al quale (come era prevedibile pensando a casi analoghi, quando non può esserci ‘consenso informato’, che è nella esclusiva disponibilità di chi è capace e consapevole) si sono sviluppati diversi punti di vista su quale fosse il ‘migliore interesse’ per il piccolo Archie.
Da quanto si apprende dalla lettura dei giornali, Archie era un bambino di 12 anni che a causa di un incidente - avvenuto lo scorso aprile durante una sfida via social - ha riportato gravissimi danni cerebrali. I tribunali britannici hanno disposto l’interruzione dei sostegni vitali, ovverosia il distacco da quei macchinari che lo mantenevano in una situazione definita di coma irreversibile essendo accertata l’avvenuta morte cerebrale. La situazione, altamente critica, non poteva essere risolta con gli strumenti e le terapie a oggi resi disponibili dalla pratica medica e nemmeno da studi e ricerche scientifiche in tale campo, tanto che i medici che avevano in cura il bambino hanno ritenuto, in scienza e coscienza, che continuare a mantenere in condizioni di vita artificiale il piccolo paziente non rientrasse nel suo stesso ‘best interest’. Da parte dell’équipe sanitaria, quindi, veniva rivolta al giudice competente la richiesta di interrompere il trattamento – ritenuto non più appropriato, del tutto privo di efficacia, inutile, e quindi espressione di una ostinazione irragionevole – lasciando che il quadro patologico evolvesse secondo il decorso naturale.
In un simile contesto non si tratta di schierarsi a favore di una posizione ‘pro life’ o di una ‘pro death’, ma di evidenziare che ci si trova dinanzi non tanto a una diversità di culture (per la vita o per la morte, appunto), quanto piuttosto di fronte a diverse interpretazioni di una medesima questione, ovverosia quale fosse il «miglior interesse» del piccolo Archie. Dinanzi al caso concreto, la domanda dirimente resta quella relativa a chi spetta l’ultima parola in merito alle cure (da assicurare o da sospendere). Ai genitori, ai medici o ai giudici? La scelta è stata imposta sia dalla situazione di contrasto intervenuta (i medici da una parte, i genitori dall’altra) sia dalla patologia del piccolo Archie. Se i medici del Royal London Hospital stimavano che il bambino attaccato a una macchina di ventilazione e alimentazione non aveva prospettive di riprendere coscienza trovandosi in uno stato clinico irrimediabilmente compromesso, diversamente i genitori erano convinti che il miglior interesse per il proprio figlio non era quello di esser “lasciato morire”.
In un sistema ben regolato, come è l’ordinamento giuridico inglese, dinanzi a una concreta contrapposizione su quale fosse il ‘migliore interesse’ del piccolo paziente, il ricorso al giudice era di fatto obbligato. I giudici inglesi hanno stabilito che la condizione clinica di Archie era irreversibile, tanto che nessuna terapia – anche di tipo sperimentale – avrebbe potuto invertire, o comunque arrestare, l’andamento certo della patologia. Archie veniva mantenuto in vita con un respiratore artificiale, non essendo in grado, secondo i medici che lo avevano in cura, di respirare in modo autonomo. La decisione, pertanto, è stata quella di interrompere il trattamento anche di alimentazione e nutrizione artificiale.
Nella certezza fattuale che non esisteva alcuna cura (neanche in Italia) in grado di arrestare il decorso infausto della malattia, il giudice dava seguito alla valutazione medica fondata su parametri (scientifici) diversi da quelli (amorevoli) dei familiari, assumendo nei termini che seguono la situazione clinica del piccolo paziente. Non potendosi presagire alcun possibile miglioramento né vantaggi di sorta con le cure allo stato disponibili, la consapevolezza (scientifica) che il trattamento «serve solo a prolungare la sua morte, non essendo in grado di prolungare la sua vita», comportava la necessità di interrompere il trattamento di mantenimento dei parametri vitali che causava solo un «deterioramento fisico ingiustificato».
Dinanzi alla diversità delle ‘culture’ richiamate in premessa, è doveroso precisare che la morte del piccolo Archie non è stata voluta da nessuno, essendo stata causata da un incidente (indotto da una ‘sfida online’) che lo ha spento a soli dodici anni e che, per quanto possiamo saperne, neanche in ospedali italiani avrebbe potuto conoscere altro esito (i genitori avrebbero voluto fare curare il proprio figlio nel nostro Paese); la gravità del danno era altamente critica e invalidante, tanto da essere irrecuperabile, anche ‘per la medicina italiana’. D’altra parte si dovrebbe ricordare che dinanzi ad una malattia non curabile (la diagnosi, lo si ricorda, era quella di morte cerebrale) è lo stesso Codice di deontologia medica italiano a stabilire che il medico «non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per salute e/o un miglioramento della qualità della vita».
A volte il sapere medico e il potere tecnologico non possono che limitarsi a mantenere in vita e nulla di più. E questo è stato il caso del piccolo Archie. Si può però interrompere l’invadenza della tecnica sul corpo martoriato e limitarsi a ricondurre la morte nell’alveo della sua naturalità. Ciò evidentemente non significa non provare un sentimento di empatia per la morte di un bambino inerme, ma solo essere coscienti della finitezza dell’uomo e delle sue possibilità; talora, non si può fare altro che arrendersi all’esito fatale di un evento tragico o di una malattia che, purtroppo, finiscono per avere l’ultima parola.