Se non si dovesse raggiungere il quorum, come accade ultimamente, si decreterebbe il fallimento totale dell’istituto refendario, cosa triste e pericolosa per la democrazia
Tutti gli articoli di Opinioni
PHOTO
Il prossimo 12 giugno, si potranno votare i cinque referendum sulla giustizia. Alcuni hanno a che fare con l’ordinamento giudiziario e con temi che sono al centro della discussione da millenni, due riguardano invece profili specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione.
Sono referendum abrogativi, che chiedono cioè l’abrogazione totale o parziale di leggi e affinché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata, la maggioranza dei voti validamente espressi deve essere Sì.
Vediamo il contenuto dei 5 quesiti e spero il 12 giugno siano in tanti, come me, a recarsi al voto e votare Sì. Se non si dovesse raggiungere il quorum, come accade ultimamente, si decreterebbe il fallimento totale dell’istituto refendario, cosa triste e pericolosa per la democrazia.
Elezione dei membri togati del Csm
Il primo quesito riguarda le norme che regolano l’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, cioè quelli che sono a loro volta magistrati, modificando in particolare le modalità di presentazione delle candidature.
Il Csm è l’organo di autogoverno della magistratura. Se oggi un magistrato si vuole proporre come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati a sostegno della sua candidatura.
Se vincesse il Sì decadrebbe l’obbligo della raccolta firme e si tornerebbe alla legge originale che dal 1958 regola il funzionamento del Csm: il singolo magistrato potrebbe presentare la propria candidatura in autonomia e liberamente senza il supporto di altri magistrati e senza l’appoggio delle “correnti” politiche interne al Csm.
L’obiettivo del referendum è dunque ridurre il peso delle correnti nell’individuazione dei candidati e rimettere al centro la valutazione professionale e personale del singolo al di là dei suoi diversi orientamenti politici.
Valutazione della professionalità dei magistrati
Il quesito chiede che la componente laica del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari non sia esclusa dalle discussioni e dalle valutazioni che hanno a che fare con la professionalità dei magistrati. I magistrati hanno oggi il compito di giudicare gli altri magistrati.
Se vincesse il Sì, i membri laici avrebbero diritto di voto in tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari con l’obiettivo di rendere più oggettivi e meno autoreferenziali i giudizi sull’operato dei magistrati.
Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati
Il quesito riguarda l’abrogazione delle disposizioni che danno la possibilità ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, o viceversa.
La funzione requirente è quella del pubblico ministero, che in un processo è il magistrato che rappresenta l’accusa. La funzione giudicante è quella del giudice, che è invece chiamato a giudicare ed è dunque dovrebbe essere super partes. Oggi i magistrati possono passare da una funzione all’altra con delle limitazioni e non più di quattro volte.
Se vincesse il Sì si separerebbero le due funzioni: a inizio carriera il magistrato dovrebbe scegliere o per la funzione giudicante o per quella requirente, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra. Le ragioni del Sì sono una maggiore equità e indipendenza che sarebbe garantita da una netta separazione tra i magistrati che accusano e quelli che giudicano.
Limitazione delle misure cautelari
Il quesito referendario interviene per limitare i casi in cui è possibile disporre l’applicazione delle misure cautelari. La custodia cautelare è la custodia preventiva (cioè una limitazione della libertà) a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza. L’art. 274 codice di procedura penale declina i casi che giustificano l’applicazione delle misure cautelari: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o quando sussiste il concreto e attuale pericolo che la persona «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede». Quando, cioè, c’è il pericolo di reiterazione dello stesso delitto.
Se vincesse il “Sì”, verrebbe eliminata l’ultima parte di questo articolo, e cioè la possibilità, per i reati meno gravi, di motivare una misura cautelare con il pericolo di reiterazione che è la motivazione che viene oggi usata con maggiore frequenza per imporre prima di una sentenza definitiva una limitazione della libertà personale. La custodia cautelare, da strumento di emergenza, si è con il passare del tempo trasformato in una pratica abusata e che l’attuale norma, nella pratica, giustifichi quasi in automatico forme di restrizione della libertà anche in casi in cui l’imputato non è effettivamente pericoloso.
Abolizione del decreto Severino
Il quesito referendario chiede di abrogare il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012 (decreto Severino) che prevede una serie di misure per limitare la presenza di persone che hanno commesso determinati reati nelle cariche pubbliche elettive.
Il decreto attuale stabilisce il divieto di ricoprire incarichi di governo, l’incandidabilità o l’ineleggibilità alle elezioni politiche o amministrative, e la conseguente decadenza da tali cariche, per coloro che vengono condannati in via definitiva per determinati reati, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto stesso.
Per quanto riguarda le cariche di deputato, senatore e membro del Parlamento Europeo la condanna che fa scattare l’applicazione della legge è a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale (come mafia o terrorismo), per reati contro la pubblica amministrazione (come peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni.
Il decreto Severino stabilisce poi dei criteri anche per quanto riguarda l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali. Prevede, infine, in caso di condanna non definitiva, la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi. Se vincerà il Sì torneranno a essere i giudici a decidere se in caso di condanna sia necessario applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici.
È chiaro tempo che il decreto Severino e in particolare l’automaticità della sospensione in caso di condanna non definitiva siano non solo inefficaci, ma anche dannosi per le persone coinvolte: nello specifico, che la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto.