La proposta dell’onorevole Dario Franceschini di attribuire il cognome della sola madre ai figli è di quelle che “spiazzano”. Infatti, quando il “nuovo”, il “mai sentito” irrompe nel dibattito politico, le iniziali resistenze sono anche comprensibili. Qualcuno si arrocca nelle sue certezze consolidate. Altri, invece, traggono spunto dalle stesse perplessità per rimetterle in discussione, alla ricerca di punti di vista differenti rispetto a chi ha preferito bollare la proposta come una discriminazione, che si sostituisce a un’altra, nel tentativo di contrappore il matriarcato al patriarcato. È davvero così? Forse, si potrebbe anche andare alla ricerca di altre chiavi di lettura.

Le cose nuove vanno decodificate facendo ricorso a pensieri nuovi. Ad esempio, non potrebbe trattarsi, più semplicemente, di un effetto del riconoscimento, per certi aspetti addirittura scontato (come abbiamo fatto a non capirlo prima?) di un “ruolo” naturale delle donne che non deve la sua origine a categorie come società, cultura, legge? È la Natura, infatti, che ha creato un legame indissolubile e ancestrale tra la madre e i figli. Il periodo della gestazione, il momento del parto sono un “miracolo” la cui grandezza, magia è difficile da spiegare con parole umane, in quanto attengono alla sfera del divino e al divino si approcciano. A questo “protagonismo femminile”, i padri che, nella quasi totalità dei casi, tranne rare eccezioni, gestivano il potere e sedevano nelle assemblee e nei consessi politici hanno risposto con il patronimico, imposto appunto dalla legge positiva che si propone l’obiettivo di “correggere” la natura.

Abuso di potere, azione di forza perpetrata nei confronti delle donne? Atto di difesa, verso eventuali raggiri, giacché solo la maternità è certa, come nel gesto del pater familias romano di sollevare il bambino appena nato, dovuto alla necessità di un riconoscimento senza il quale il neonato sarebbe stato esposto e non avrebbe mai fatto parte della famiglia? Oppure, la volontà, mossa dalle migliori intenzioni, di responsabilizzare i padri, coinvolgendoli attivamente, nella genitorialità, affinché non diventi solo “una questione di donne”? L’una o l’altra ragione è collegabile ai diversi periodi storici. Se nella società contemporanea, non è più contemplata la possibilità che un figlio possa essere considerato una proprietà sul quale apporre un “marchio” che ne garantisca l’autenticità, è però ancora presente l’dea che dalla consuetudine del patronimico possano derivare assunzioni di responsabilità affettiva e doveri.

Ma è proprio indispensabile che ci sia un cognome affinché un padre ami e si prenda cura di suo figlio? Sicuramente, no. Pertanto, non vi è proprio nessuna ragione per non prendere almeno in considerazione la possibilità di introdurre il matronimico nell’ordinamento giuridico italiano soprattutto al fine di evitare che i bizantinismi del doppio cognome o il ricorso alla scelta consensuale possano rendere inattuabile, o non completamente attuabile, il nuovo corso che si vorrebbe inaugurare o, peggio, trasformarsi in un veicolo di divisioni familiari.