C’è un vento diverso, quest’anno, a Milano. Non è solo questione di dazi, che pure sono tornati di moda nel dibattito pubblico, né soltanto di tensioni internazionali. È un vento più sottile, una malinconia che s’insinua tra i viali della città e che sembra aver spento, almeno in parte, quell’entusiasmo che una volta accompagnava gli eventi, le stagioni, le ambizioni.

In questo scenario, si apre il Salone del Mobile. E lo fa senza perdere il passo, né la voce. Nonostante le defezioni eccellenti, nonostante le incognite sul commercio globale, nonostante quella sensazione latente che la città stia diventando sempre più una vetrina per ricchi e sempre meno un luogo abitabile per tutti.

Il Salone c’è, tiene, rilancia. Non è solo una questione di numeri – anche se nove miliardi di fatturato rappresentati in Fiera non sono un dettaglio –, ma di significato profondo. È un evento che affonda le radici in un sistema produttivo che ha saputo adattarsi, aprirsi a nuovi mercati (India, Arabia Saudita, Emirati), inventarsi percorsi diversi senza mai rinunciare alla qualità.

Non è tutto rose e fiori: qualche assenza di peso c’è, qualche azienda ha deciso di restare fuori. Ma l’impianto tiene. In Fiera ci sono i grandi del settore, italiani e stranieri, aziende che rappresentano da sole miliardi di euro di fatturato. E soprattutto c’è un’idea chiara: che la forza del Salone non sia solo nell’estetica, ma nel suo retroterra industriale, nelle mani che sanno fare, nei territori che ancora producono e innovano.

È anche una rappresentazione plastica di ciò che Milano sa ancora essere quando non si perde: un punto d’incontro tra l’impresa e la cultura, tra la materia e l’immaginazione. E che riesce, ancora, a mettere in scena un’idea di Italia che funziona: fatta di artigianato evoluto, di filiere radicate nei territori, di innovazione che non si vergogna della tradizione.

Eppure il clima attorno è meno brillante. La città che ospita il Salone è apparsa negli ultimi mesi ripiegata su sé stessa. L’azione della magistratura detta di nuovo l’agenda politica, i discorsi si consumano più sulle candidature che sulle visioni, e l’ascensore sociale che un tempo saliva senza troppo rumore oggi sembra bloccato al piano terra. Il costo della vita impazzisce, il mercato immobiliare spara cifre che sfiorano l’assurdo, e la sensazione che Milano si stia trasformando in un “paradiso fiscale” per i super ricchi si fa sempre più concreta.

Perché tutto il resto – la movida del Fuorisalone, i cocktail in Brera, i selfie negli showroom – è scenografia. Piacevole, certo, ma accessoria. Il cuore vero batte a Rho. Tra gli stand di chi i mobili li pensa, li crea, li scolpisce. Ed è un tripudio di forme, colori, materiali anche super innovativi che sfama gli occhi e lo spirito di chi si ferma a guardare. O si siede sul grande divano di piazza del Duomo che diventa simbolo di una città che ha voglia di gustarsi l’attimo, magari riempiendolo di quattro chiacchiere tra amici.

In tutto questo, il Salone non può certo risolvere i problemi. Ma può – e lo fa – offrire un’alternativa simbolica. Ricorda che esiste un’Italia che lavora, che pensa, che costruisce. Che esiste una Milano che non è solo da bere, ma diventa progetto. E che anche nel cuore della malinconia si può trovare ancora un motivo per credere.